Noi ce la siamo cavata. I protagonisti di Io speriamo che me la cavo ritrovati tanti anni dopo quel film che fece epoca, con l’ultima intervista al premio Oscar Lina Wertmüller.
Martedì 28 febbraio Giuseppe Marco Albano autore del documentario sarà ospite al PostMod per presentare il film al pubblico.
Un documentario che, con grande leggerezza che comporta anche una profondità di sguardo, sa andare oltre il ritrovarsi.
Correva l’anno 1992 quando Lina Wertmuller presentò sugli schermi un film tratto dal libro omonimo di un maestro elementare: Io speriamo che me la cavo. Al centro c’erano i bambini di una classe nel napoletano e un maestro interpretato da Paolo Villaggio. Trent’anni dopo uno di loro, Adriano Pantaleo che è poi rimasto come attore nel mondo del cinema, ha deciso di andarli a cercare per vedere se ‘se la sono cavata’.
Chi trent’anni fa ebbe la possibilità di vedere un film ispirato a un libro apparentemente impossibile da far diventare cinema ricorda come ciò che colpiva era la capacità di una regista come la Wertmuller di far ‘vivere’ ai piccoli protagonisti i reciproci personaggi amalgamandoli con quello di un attore più che noto desideroso di staccarsi, almeno momentaneamente, dai ruoli che gli avevano dato il successo.
Pubblico e critica riconobbero la riuscita dell’impresa. Il fatto che quello di loro che ha continuato a recitare abbia avuto l’idea, con la benedizione di Lina, di andarli a trovare poteva tradursi in un ‘come eravamo’ sicuramente simpatico ma privo di ulteriori significazioni. Il ricordo di un tempo c’è ovviamente ma consente anche di rivisitarlo con lo sguardo della memoria non solo di chi allora era un bambino ma anche di chi quel film lo fece essere.
A partire dal produttore, dallo sceneggiatore e da molti altri che in quella realizzazione ebbero un ruolo. La regia di Giuseppe Marco Albano alterna, con il giusto dosaggio, gli incontri di Pantaleo con i compagni di set di allora e la riunione collettiva avvenuta, Covid impedendo, a distanza di tempo. Abbiamo così la possibilità di assistere a narrazioni che potremmo definire ‘private’ e all’amarcord collettivo.
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