TerzaSala. Mercoledì 16 settembre alle 21.30
Mirada Invisible presenta il primo Cineforum della stagione del PostMod
PVC-1 è un film drammatico-thriller indipendente del 2007 scritto, diretto, prodotto e fotografato da Spiros Stathoulopoulos, basato su una vicenda realmente accaduta.
Racconta in tempo reale un tentativo di estorsione e rapina da parte di alcuni rapinatori in una fattoria. I rapinatori, arrivati nella fattoria, trovano una povera famiglia di contadini che non ha soldi da consegnare, e i malviventi decidono quindi di legare attorno al collo della moglie del fattore (chiamata Ofelia) un collare esplosivo, per poi scappare dalla fattoria dopo aver fatto stendere a terra il resto della famiglia.
Il film è stato presentato al Festival di Cannes del 2007, ed è il debuto registico di Spiros Stathoulopoulos. Ha ottenuto popolarità e consensi soprattutto grazie alla modalità di ripresa: l’intero film infatti è un unico piano-sequenza lungo 85 minuti, senza alcuno stacco, per raccontare in tempo reale la storia.
Recensione. Siamo abituati ormai a vedere il (e nel) cinema la mediazione con la realtà. Ovvero: ci sediamo ad un tavolino di fronte a lui, e se vuole raccontare cose realistiche ci deve convincere di questo. Tanto più esso si avvicina al concetto che abbiamo di reale, tanto più ne veniamo coinvolti, almeno in linea teorica. Si tratta in ogni caso di un’illusione a cui lo spettatore si assoggetta consapevolmente poiché anche nell’opera più realistica potrà rintracciare una tecnica, un metodo, un qualcosa che segni in ogni caso il confine fra verità e fiction. PVC-1 no.
PVC-1 è un film eccezionale perché assottiglia come nessun altro aveva mai fatto la linea di demarcazione fra ciò che appare reale e ciò che non lo è. Merito del piano sequenza (non ricordo dove ho letto che è la tecnica registica più vicina alla vita. Vero. Ma qui lo è molto di più alla morte) che costituisce tutta la pellicola: dall’inizio alla fine. Come Sokurov e se volete anche Hitchcock, Stathoulopoulos pone la propria cinepresa come sguardo unilaterale, esclusiva fonte di conoscenza possibile. Non esiste il montaggio o altri artifizi, è come essere realmente lì, dentro la fattoria colombiana in cui la percezione della sofferenza di quella mamma-bomba è a prova di tatto (si sente un fastidio intorno al collo durante la proiezione), di vista (non essendoci campi/controcampi tutto si allontana o si avvicina a seconda della mdp), di udito (i bip-bip dell’ ordigno strozzano il fiato), di gusto (il metallo della pistola puntata nella bocca del figlioletto), di olfatto (non ho la più pallida idea di che odore abbia una bomba ma quando l’artificiere si è messo ad annusare il collare io HO sentito).
Tale cinema, che credo mai come in questo caso vada classificato sotto la categoria di esperienza e non di visione, riesce ad empatizzare così tanto perché utilizza le medesime coordinate del nostro vivere. Noi vediamo, sentiamo, avvertiamo, percepiamo, tutto quello che se fossimo invischiati nella vicenda sentiremmo, avvertiremmo, percepiremmo. Si presenta e prosegue allora come un cinema che riduce la distanza fra l’osservatore e l’osservato, poggiando le fondamenta su un substrato fatto di angoscia che tende il filo del film non in una sola scena ma per tutta la sua durata.
Dei delinquenti hanno messo un collare esplosivo addosso ad una donna e noi siamo lì con lei e la sua famiglia. Punto.