giovedì 1 gennaio
ORARI (click per mostrare/nascondere)
Michael Mann
Un film di Michael Mann. Con Chris Hemsworth, Wei Tang, Viola Davis, Ritchie Coster, Holt McCallany.
Titolo originale Blackhat. Azione, durata 135 min, colore - USA, 2015 - Universal.

Blackhat. C’è un attacco informatico dietro al surriscaldamento che ha causato l’esplosione di una centrale nucleare nei pressi di Hong Kong. Alla stessa maniera c’è un attacco informatico quasi identico ai danni della borsa di Chicago che fa schizzare all’improvviso il prezzo della soia. Le autorità cinesi e americane, non senza una certa riluttanza, comprendono che è il caso di collaborare per fermare chiunque ci sia dietro questi due crimini. Il capitano Dawai, arrivato negli Stati Uniti, convince l’FBI a servirsi di Nick Hathaway, un criminale sui cui si sono basati i criminali e che sta scontando una lunga condanna in un penitenziario di massima sicurezza. Liberato ma controllato, sia a vista che elettronicamente, Hathaway spinge l’indagine così in là da essere costretto a proseguirla anche da solo per cercare di guadagnarsi la propria libertà.
Ci sono più vuoti che pieni nel nuovo film di Michael Mann, in sintonia con Miami Vice e Collateral, il regista questa volta gira un’opera metropolitana fino al midollo, che va a recuperare le città più città che ci sono in oriente, tra masse di persone, cartelli al neon, metropolitane, treni e le notti illuminate da ubique luci artificiali. Solo ad un certo punto si concede l’opposto, il contrasto naturalista dell’ampio respiro in spazi naturali aperti e ariosi (come in Miami Vice avveniva con la fuga in motoscafo). I vuoti del film sono quelli lasciati dall’autore, sempre meno interessato alle parti di racconto tradizionale, sempre meno disposto a soffermarsi sui doveri più elementari di un narratore. Benchè la trama di Blackhat sia chiara, ben spiegata e per quanto possibile in un film di finzione rigorosa riguardo la materia trattata (il cybercrimine), è evidente che non sta nell’intreccio il cuore del film.
I film di Michael Mann hanno sempre di più dei tempi unici: le parti utili a mandare avanti la storia si contraggono, si asciugano, diventano essenziali e occupano sempre meno spazio, al contrario si ampia il resto, dagli attimi di stasi, agli sguardi, alle panoramiche, fino ai momenti in cui i personaggi vivono a margine dell’azione (quando si svegliano e quando vanno a dormire, cosa si dicono mentre si spostano da un luogo all’altro in elicottero).
È evidente che Blackhat non è un film canonico, nonostante si fondi su un intreccio ostinatamente classico dal quale non intende fuggire, nonostante sia innamorato dei suoi poliziotti duri che con il linguaggio del corpo e degli sguardi dicono sempre altre cose (più sincere) rispetto alle parole che pronunciano. I suoi eroi belli di fronte al destino, che nelle poche scene di giorno indossano occhiali da sole e incedono con il passo sicuro delle figure epiche e mitologiche, somigliano agli dei fragili più che agli uomini comuni, diventano rappresentazioni polarizzate dell’etica e del rigore. Come nei migliori western e nel poliziesco francese non è il lato della barricata nel quale si trovano a definirli, chè i criminali sono uguali ai poliziotti e in questo caso più che mai usano i medesimi metodi. A definirli è la maniera in cui rimangono fedeli a se stessi e ai propri affetti.
È un cinema di una moralità incredibile che, appassionandosi ai vuoti della storia, dipinge un’infinita malinconia del vivere con il destino alla porta. Non concentrandosi sull’azione (che comunque non manca) ma su quello che c’è prima e dopo, il film è libero di scatenare il senso di perdita. Se c’è infatti una cosa che caratterizza Nick Hathaway, hacker con una condanna pendente, è l’impossibilità di vivere il suo tempo, di avere la donna che vuole o la vita che desidera, e questo destino di violenza e truffa, l’ingiustizia del subire i tempi della giustizia umana (Hathaway non è innocente, ha compiuto davvero i crimini per i quali è stato incarcerato) sembra segnare ogni passo che compie, ogni tentativo di risolvere il caso e magari fuggire.
Su questi presupposti di granito Mann lascia piangere le sue grandi metropoli in un digitale che non vuole inseguire la pellicola ma si bea della sua scarsa dinamica (la quantità di sfumature di ogni colore che il sensore cattura, quindi la sua profondità) e della sua estetica priva di luci di scena. Le panoramiche all’interno dell’architettura dell’hardware dei computer dell’inizio fanno il paio con le grandi scene di massa del finale (le moltitudini di persone, sono puntini come i blocchi dei circuiti). È un’iconografia della città moderna (e quindi della vita moderna, che si spiega meglio mostrando le notti piuttosto che i giorni) che lui stesso ha fondato con Collateral e continua a portare avanti attraverso i veri colori della notte (cioè quelli falsi dati dalle insegne, i lampioni, le torce…), una scelta in grado di lasciare a briglia sciolta il gusto metallico per i cromatismi freddi, una tavolozza che annuncia morte e che in Nemico pubblico era tenuta a freno per tutto il film, almeno fino all’omicidio finale.