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film riservato alle scuole
Un film di Roberto Faenza. Con Jean-Hugues Anglade, Juliet Aubrey, Francesca De Sapio, Djoko Rosic, Luke Petterson, Jenner Del Vecchio.
Titolo originale Giona che visse nella balena. Drammatico, durata 90 min, colore - Italia, Francia, 1993 - .
Giona che visse nella balena locandina

A quattro anni, Jona Oberski che vive ad Amsterdam con i genitori ebrei Max e Hanna. a causa dell’occupazione nazista della città, è costretto con la sua famiglia a trasferirsi in un campo di smistamento tedesco. Gli Oberski sono destinati a passare da un campo di raccolta all’altro, per essere poi scambiati con prigionieri germanici. A 7 anni, Jona ha già subíto freddo, fame, paure e sofferenze: sempre insieme per sua fortuna ai genitori (in baracche comunque diverse), il bambino è obbligato a farsi un mondo suo, subendo anche momenti umilianti o angherie anche degli altri ragazzi, abituandosi al filo spinato e alle voci minacciose. Rarissimamente un gesto gentile (l’anziano cuoco di un lager, o il medico dell’ambulatorio). Poi l’ultimo incontro amoroso dei genitori: la morte del padre stremato nel fisico; quella della madre semidelirante (curata ormai in un ospedale sovietico): l’assistenza di una ragazza a cui quella lo ha affidato e, infine, nel 1945, la generosa accoglienza dei Daniel, una matura coppia abitante ad Amsterdam. E’ tutto ciò che resta a Jona a testimonianza del suo passato e delle radici amarissime, nel quadro di una tragedia immane, da cui il bambino è uscito solo per la sua tenacia e per la memoria incancellabile di sua madre, che anche morente ha continuato a dirgli “non odiare nessuno”.

 

“Questo tentativo di rispecchiare la quotidianità dell’orrore si ritrova in “Jona che visse nella balena”, dove il regista Roberto Faenza si impegna a rispecchiare la surreale semplicità delle pagine autobiografiche di Jona Oberski (classe 1938). Se non conoscete ancora il libro straordinario e dolente intitolato “Anni d’infanzia” (editrice Giuntina, pagine 124, lire 16.000 ), procuratevelo subito, leggetelo e collocatelo sullo scaffale accanto a “Il diario di Anna Frank”. Infatti le due testimonianze sono parallele nel tempo e nello spazio. La ragazzina morì a Bergenbelsen, dove il bambino passò il periodo più duro della prigionia; e poi Anna e Jona hanno in comune l’intangibile freschezza dello sguardo infantile che si posa su persone ed eventi.” (Tullio Kezich, Il Corriere della Sera).”La memoria salvata dai ragazzini. Ovvero: la tragedia del lager e la follia dell’antisemitismo nazista ricostruite attraverso lo sguardo candido e innocente di un bimbo ebreo olandese, rinchiuso nel campo di Bergenbelsen nel 1942. Strappato al suo mondo di giochi, pupazzi e carillon per essere gettato con violenza tra i reticolati concentrazionali del lager. Jona impara a vivere e a guardare (attenzione alle numerose scene in cui osserva il mondo dal vetro di una finestra, o al ricorrente tema del chiudere e riaprire gli occhi) con lo sgomento attonito di chi è stato costretto dalla vita a diventare grande troppo in fretta.” (Gianni Canova, da Sette de Il Corriere della Sera).”Racconta l’infanzia d’un bambino olandese ebreo nel lager nazista che diventa per lui un ambiente quasi normale, il solo mondo che conosce e nel quale si compiono le sue prime esperienze d’amore, di dolore, di rapporti sociali, di capacità di sopravvivere.” (Lietta Tornabuoni, La Stampa, 23/4/93).”Senza i frastuoni della repulsione ma con i sussurri dello sdegno, sottovoce come dovrebbero essere narrate le tragedie del martirio, solidale con le pudiche intenzioni dello scrittore, Roberto Faenza confeziona un film sobrio, virgineo, essenziale, evitando qualsiasi manipolazione del testo.” (Il Messaggero, Fabio Bo, 5/4/1993).”Non tutto, se si vuole è di meditata qualità, certe descrizioni dei campi, rispetto al tono generale distaccato, provocano strappi aspri, con un senso, soprattutto, di “già visto”, e il disegno di certe figure di contorno rischia di risultare solo sbozzato, con psicologie fragili; nel suo insieme, però, il film riesce a coinvolgere: specie là dove è l’occhio del bambino che, guardando e ricordando, ci rappresenta in modo del tutto soggettivo quegli orrori quotidiani cui ha assistito.” (Il Tempo, Gian Luigi Rondi, 16/4/1993).