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film riservato alle scuole
Roberto Benigni
Un film di Roberto Benigni. Con Horst Buchholz, Roberto Benigni, Giustino Durano, Nicoletta Braschi, Giuliana Lojodice.
Titolo originale La vita è bella. Drammatico, durata 131 min, colore - Italia, 1997 - .
La vita è bella locandina

Guido Orefice, ebreo romantico nell’Italia di Mussolini, raggiunge ‘senza freni’ Arezzo. Assunto come cameriere al Grand Hotel sposa Dora, la principessa precipitata dal cielo e promessa a un grigio funzionario di regime. Dal loro amore, più forte delle discriminazioni e della propaganda antisemita, nasce Giosuè. Cinque anni dopo la situazione precipita e Guido e Giosuè vengono deportati. Condannati all’inferno, Guido oppone instancabilmente la forza del sogno all’incubo troppo reale dei campi di concentramento. Giorno dopo giorno convince il figlio che quello a cui assiste è soltanto un immenso gioco di ruoli in fondo al quale si vince un tank. Guido traveste l’orrore, lo adatta, lo dirotta perché il suo bambino non smetta mai di sognare.
Guido ha un dono raro. È capace di ridisegnare la vita, di farla più bella con la forza dell’immaginazione. Guido è un mago, com’è permesso di esserlo solo nelle favole o in un film che si azzarda a sfidare le leggi del realismo. Come si comporterebbe allora questo funambolo allegro e generoso in faccia all’orrore indicibile dei campi nazisti? Con esuberanza. Un’esuberanza che lascia costantemente sbalorditi protagonisti e spettatori. Cameriere al Grand Hotel di Arezzo, Guido semina un trambusto sovversivo che confonde i burocrati fascisti che lo incrociano. Perché Guido il fascismo non lo combatte frontalmente, si accontenta di metterlo in ridicolo alla prima occasione e in ogni occasione, sostituendosi a un ispettore mandato da Roma per tenere una lezione sulla superiorità della razza o al fidanzato fascista della sua principessa. Guido è un personaggio felice e inafferrabile, uno schlemiel formidabilmente capace di piegare a suo favore gli scacchi della sorte, di farsi gioco dei cattivi.
L’impertinenza gli si addice come l’ardore. E infatti la sola idea fissa di Guido è Dora, la giovane istitutrice che cede sotto il suo charme e la sua poesia leggera. La sposa e cinque anni più tardi cammina con suo figlio sotto lo sguardo di un soldato tedesco e verso un treno coi vagoni di legno. “Dove andiamo?”, domanda il bambino, e La vita e bella scivola nell’imponderabile. Come il destino di Guido, come l’ambizione di Benigni. Dove vanno, Guido non ne ha idea ma, precipitato nell’orrore concentrazionario, non si arrende. La favola volge al nero e Benigni introduce un’idea luminosa sulla quale costruisce la seconda parte del film: il suo eroe, abile a incantare la vita degli altri, inventa per suo figlio il gioco della sopravvivenza. Un gioco in cui i soldati tedeschi, “quelli cattivi, cattivi che urlano forte”, dettano le regole, dove si guadagnano punti a nascondersi, dove si perdono piangendo, dove accumulandone mille si vince un carro armato, uno vero. Chiunque voglia sottrarsi al male non ha altra scelta, per Benigni, che recitare il folle.
Seguendo l’impronta delle comiche slapstick, l’autore fa del suo Guido l’erede più diretto del barbiere di Chaplin (Il grande dittatore). Come lui non perde mai la propria identità, prendendo la libertà di sostituirsi (in)consapevolmente agli avversari. Qualsiasi magia Guido compia non è che un piccolo tentativo di resistere alla grandezza del Male. Nell’incessante confronto tra i segni accumulati di una tragedia in marcia (il fumo nero che esce di continuo da un camino, la montagna di abiti smessi, la doccia dove vengono spediti vecchi e bambini) e i prodigi d’invenzione di un padre per dissimularli al proprio figlio, nasce la singolare pertinenza del film, che svela e denuncia progressivamente la crudele assurdità della loro situazione.
Tra l’infilmabile e il troppo filmato, Benigni prende la sola decisione possibile, elude il realismo e stilizza per non tradire. Questa scelta morale ed estetica insieme è decisiva. Il campo in cui è stato deportato Guido non esiste ma è un richiamo inconfutabile al male banale e assoluto che conosciamo. La vita è bella affronta la tragedia seguendo un sentiero puramente fantastico ma la fantasia subisce un terribile tracollo di fronte allo svelamento effettivo della realtà (il muro di cadaveri). Nondimeno Guido è l’unico personaggio in grado di incarnare l’elemento favolistico, di sfidare gli orchi, di giocare con un dio capriccioso e invisibile. Contro l’ineluttabile si difende con l’ironia, un’ironia che finisce per disfarsi quando gli eventi precipitano. Quando Lessing, il medico che Guido aveva servito anni prima al Grand Hotel, non vede la ‘soluzione’ che ha davanti agli occhi. Quando nel momento più critico, rispetto al quale le proprie dimensioni e le proprie magie cessano di ‘funzionare’, Guido trova la risorsa di una giulleria che spacca il cuore. Quando non c’è più niente da ridere e il male diventa un’evidenza tutta da piangere. È allora che misuriamo il bel trionfo di Benigni, la sua abilità a evitare la drammatizzazione a oltranza e la buona coscienza consensuale. Ma il racconto e la memoria della Shoah possono passare per la risata? Se lo è domandato una parte della critica accanita contro una commedia in due atti che rompe l’interdizione in maniera più significativa di Schindler’s List. Benigni non ride di o con la Shoah. Benigni conferma piuttosto che la risata e l’orrore, lontani dall’escludersi, si attraggono naturalmente. Ridere salva la vita, è una reazione vitale contro il caos e la disperazione. Semplice e chiaro, La vita è bella laicizza la memoria senza mai dimenticare. La poesia dopo Auschwitz è possibile. Lo diceva Paul Celan, lo ribadisce Roberto Benigni, il clown che ha sbaragliato la barbarie nel tempo di una favola.