Dilili a Parigi. Due amici cercano di capire chi è che rapisce le ragazze di Parigi. Insieme vivranno una straordinaria avventura. Ha vinto un premio ai Cesar. Quanta bellezza, intelligenza e ironia, in questo Dilili a Parigi, che sembra assommare i precedenti lavori di Ocelot (l’incipit richiama esplicitamente Kirikou, altre scene strizzano l’occhio a Azur e Asmar) e rinnovare ancora una volta l’arte dell’animazione cinematografica.
Dilili è una piccola kanak meticcia, che arriva a Parigi, a fine Ottocento, imbarcandosi di straforo sulla nave che riporta in Francia, dalla Nuova Caledonia, l’insegnante anarchica Louise Michel, di cui diviene discepola. Nella capitale stringe amicizia con Orel, un facchino affascinante e gentile, che conosce tutto il mondo culturale e artistico della Belle Époque. Insieme a lui, scarrozzerà per tutta Parigi alla ricerca dei cosiddetti Maschi Maestri, una banda di malfattori che terrorizza la città, svaligiando le gioiellerie e rapendo le bambine. Con la consueta, straordinaria abilità, Ocelot fonde l’intento educativo con un’immaginazione galoppante, la realtà, del paesaggio parigino, e dei tanti personaggi illustri chiamati a raccolta, con la freschezza di uno sguardo nuovissimo, che non teme il confronto con le icone, perché possiede in quantità gentilezza e coraggio. Esattamente come la protagonista di questo film, Dilili: un personaggio che pare uscito da un classico della letteratura per l’infanzia, ma è portatore di una consapevolezza contemporanea, straordinariamente matura e cristallina. Una nuova Zazie, che fa rivivere cinematograficamente la capitale francese come non accadeva da tempo, esplorandola in ogni dove, dalle fogne al cielo, per celebrarla, infine, con una sequenza tra sogno e spettacolo. Ocelot risponde al richiamo delle urgenze politiche e sociali contemporanee, e all’oscurità culturale di questo inizio di millennio, ambientando i peggiori spettri dell’attualità, misoginia e terrorismo, al tempo del progresso (Gustave Eiffel), delle invenzioni futuristiche (Alberto Santos-Dumont, i Lumière), delle scoperte scientifiche (Marie Curie), dei capolavori dell’arte (Toulouse Lautrec, Renoir, Picasso, Rodin, Camille Claudel) e della letteratura (Proust). È un confronto impietoso ed eloquente, che passa anche e soprattutto dal piano delle immagini, senza bisogno di commenti aggiuntivi: nella bellezza dei palazzi Art Nouveau, dei manifesti di Mucha e dei costumi dei Sarah Bernhardt brilla un’idea di vita e di socialità che sta all’opposto dell’idea di sottomissione e copertura che anima la setta di villains del film, e nella ricerca tecnica e visiva di Ocelot riecheggia lo spirito di quelle imprese e l’emozione della meraviglia.
“Non si vede una cosa finché non se ne vede la bellezza”, diceva Oscar Wilde, e Ocelot pare invitarci a questo tour di un’altra stagione della storia e dell’anima, in compagnia della più intraprendente e simpatica piccola donna che la sua fantasia potesse partorire, proprio per ricordarlo alle nostre pigre menti e dar loro un’iniezione di elettricità.