Ferrari. Travolgente, bellissimo ritorno al cinema di Michael Mann in un film gigantesco sulla ‘caduta degli dei’. Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia.
Nei titoli di coda di Ferrari c’è la dedica a Sydney Pollack. È una delle tante anime che attraversano questo nuovo, imponente e travolgente film che segna il ritorno al cinema di Michael Mann a otto anni da Blackhat. Da una parte Pollack doveva essere uno dei produttori di Ferrari. In più il film, dietro la facciata del biopic, percorre (anche se in maniera più diretta) lo stesso ‘viaggio in Italia’ di Un attimo, una vita con protagonista Al Pacino nei panni di un pilota di Formula 1. Quel film è uno dei mélo di Pollack meno conosciuti che però ha una forza dirompente ed è uno dei suoi titoli da recuperare. Ma anche in Michael Mann la componente sentimentale non resta ai margini e può diventare esplosiva. Ferrari non è solo un film su Enzo Ferrari ma è soprattutto una storia sempre in bilico tra l’amore e la morte: un colpo di pistola improvviso sparato in casa, l’abitazione segreta di Castelvetro dove c’è la sua seconda famiglia, l’attrazione quasi fisica per la pista e la gara (“La Jaguar corre per vendere automobili. Io vendo per correre“), la tomba del figlio Dino morto a 24 anni che per lui non solo è un appuntamento quotidiano ma l’illusione di un dialogo che non si è mai interrotto. Come Enzo Ferrari, anche Adam Driver ha spesso gli occhiali da sole. Il volto è presente ma è come se fosse guardato dagli occhi degli altri proprio come Robert Oppenheimer nel film di Christopher Nolan. Ma sono proprio attraverso quegli occhiali che riprendono forma tutti i riflessi del suo cinema. Ferrari mette la vita dell’imprenditore modenese allo specchio. La forza incredibile del film, come in (quasi) tutto Michael Mann è proprio la capacità di oltrepassare quel corpo, di far sentire il suo mondo non solo attraverso il suo ambiente (le famiglie, la fabbrica) e di rendere familiare la sua casa, ma soprattutto con i rumori dei motori che è un suono ricorrente e dove, istintivamente, si potrebbe avvertire la differenza tra quello della Maserati e quello della Ferrari.
Ferrari è un film sulla ‘caduta degli Dei’ così come lo erano Nemico pubblico e Alì. Nel finale del biopic su Muhammad Alì c’è il celebre incontro con George Foreman nel 1974 a Kinshasa nello Zaire dove la realtà viene trasfigurata e assume una connotazione mitica. Qui forse questo sdoppiamento vita/leggenda è meno dichiarato. Ma l’Enzo Ferrari disegnato dalla mostruosa bravura di Adam Driver (prima di lui erano stati pensati per questo ruolo Christian Bale e Hugh Jackman) si muove sempre sul filo sospeso tra il Paradiso e l’Inferno, il successo e il baratro. E l’anno in cui è ambientato, il 1957, è stato uno dei periodi più bui della sua vita: il figlio Dino è morto l’anno prima e con la moglie Laura (Penélope Cruz) c’è una continua guerra di nervi ma soprattutto la sua azienda è sull’orlo della bancarotta. In più vorrebbe ma non può riconoscere Pietro, il figlio avuto da Lina Lardi (ottima la prova di Shailene Woodley forse nella sua interpretazione più matura) e deve continuamente fronteggiare gli attacchi della stampa che, tra i vari appellativi, lo hanno soprannominato anche ‘creatore di vedove’.
Tranne il brevissimo frammento documentario iniziale, Ferrari ricostruisce gli incidenti in pista come quello di Eugenio Castellotti durante le prove e soprattutto la tragedia di Guidizzolo durante le Mille Miglie con una maniacalità impressionante che è quella che ha sempre caratterizzato il suo cinema dove nella riproduzione della Storia ha la precisione di James Cameron. Del resto non si sa se si può definire Ferrari, tratto dal libro Enzo Ferrari: The Man, The Cars, The Races, The Machine di Brock Yates, come il film della vita del cineasta statunitense, ma è un progetto a cui Mann sta pensando da almeno 20 anni; anzi, un articolo del 1993 già accennava all’idea del regista di fare un film con Enzo Ferrari con Robert De Niro come protagonista. L’attesa è stata premiata. Ci sono tutti quei primi piani unici del cinema dell’autore statunitense dove i volti sono come ingranditi, occupano l’inquadratura facendo saltare le normali prospettive. Oggi Michael Mann, molto più di Martin Scorsese, è, ancora con Cameron, l’unico regista statunitense che ci mostra che il cinema è gigantesco e i suoi protagonisti possono diventare quattro/cinque/cento volte più grandi di un normale corpo umano. E sotto questo aspetto la corrispondenza tra il suo cinema e quello di Orson Welles diventa immediato. Poi, dei film statunitensi girati in Italia, Ferrari lascerà per sempre il segno così come aveva fatto Wyler con Vacanze romane e Mankiewicz con La contessa scalza. The End. Il film è finito ma non è finito. Ferrari finisce non solo nel momento giusto ma nell’inquadratura giusta. Così come Miami Vice cominciava nel punto giusto e con la durata giusta in discoteca. Non è solo bravura. Ma è proprio istinto, puro istinto animale. Lo stesso che aveva Enzo Ferrari nel momento in cui resuscitava dall’abisso.
recensione di Simone Emiliani pubblicata su Sentieri Selvaggi
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