EVENTO CONCLUSO
EVENTO

Appennino. Evento Speciale con Emiliano Dante, martedì 11 febbraio ore 21.30.
Il regista presenterà al pubblico del PostModernissimo il suo film sui terremoti  appennici.

Un diario cinematografico girato tra l’agosto del 2016 e lo stesso mese dell’anno successivo, in cui si passa dalla lentissima ricostruzione dell’Aquila, la città dove il regista vive, al terremoto di Amatrice e Arquata del Tronto, alla vita in albergo dopo i terremoti di Norcia e di Montereale-Campotosto. Un percorso intimo e ironico, lirico e geometrico, dove il racconto della vita in un’area sismica diviene lo strumento per riflettere sul senso stesso del fare cinema.

Come per le fatiche di Sisifo, i terremoti dell’Italia centrale condannano chi li subisce a operare una inesausta rimessa in forma di architetture, esistenze e immagini: Appennino di Emiliano Dante, in concorso in Italiana.doc a Torino 2017.

A tre anni da Habitat – Note personali, Emiliano Dante torna in concorso al Torino Film Festival in Italiana.doc con Appennino, dove ancora ragiona intorno al concetto del terremoto e dell’influsso traumatico che questo ha sulla vita delle persone, in primis sulla sua. Se però Habitat – Note personali era incentrato sul terremoto dell’Aquila del 2009, Appennino è – purtroppo – un ‘inseguimento’ di nuovi altri smottamenti terrestri che si sono susseguiti nel centro Italia (da Amatrice a Norcia) a un ritmo impressionante tra il 24 agosto del 2016 e il 18 gennaio del 2017. E dunque, se Appennino inizia come un tentativo di documentare lo stato in cui si trova la città dell’Aquila (città natale del regista) a sette anni dal disastro, si trova poi costretto a proseguire altrove e a deragliare continuamente, interrogandosi al tempo stesso sulle direzioni da prendere. Appennino è perciò un continuo ripartire da zero, un inesausto e vano ricostruire sulle macerie, e va dato merito a Emiliano Dante di aver fatto di questo dato caratteristico delle scosse sismiche un concetto attorno a cui far ruotare con estrema coerenza il suo film. Raccontando ciò che gli accade in prima persona, infatti, Emiliano Dante incontra i nuovi terremotati e si confronta con loro da ‘vecchio’ esperto del tema, allo stesso tempo però prova a interrogarsi su quale possa essere il centro del film – che procede dunque come un work in progress – e su chi possa essere il suo vero protagonista. Finché una nuova ennesima scossa lo fa ripartire daccapo ancora una volta, e così via, in una spirale infinita. La messa e rimessa in forma allora diventa il nucleo instabile di Appennino, una messa in forma che ha allo stesso tempo a che vedere con il desiderio di ricostruire quei palazzi che sono crollati, con il tentativo ricomporre esistenze sballottate dagli eventi e con il saggiare la possibilità del cinema di chiudere – e in qualche modo anche di far finire – tutto questo in base a un discorso coerente e uniforme. Ecco perché allora Dante costella il suo film di elementi meta-cinematografici atti a esplicitare il processo del ‘fare’ e del ‘rifare’ il film: il numero delle inquadrature (500, a scalare, in una sorta di countdown), lo schermo del pc dove si lavora al montaggio, l’astrazione geometrica dei luoghi, il disegno e accenni di animazione. Tutto questo conduce a un unico discorso: l’inane sforzo di astrarre e di dare forma al materiale bruto (e brutale) della realtà che ci circonda e che non possiamo accettare così com’è, informe, sepolta dalle macerie, dai detriti, dai ruderi e dalle rovine dell’esistere. È vero, Appennino a tratti rischia di cadere nel cronachistico, con quel suo tragico susseguirsi a stretto giro di scosse sempre più fatali, ma è un rischio che era giusto correre per poter riuscire a sviluppare questa chiave di lettura che fa del terremoto un simbolo acuito della precarietà delle nostre esistenze. A partire dal disastro e dall’impossibilità stessa della ricostruzione, Emiliano Dante è riuscito infatti a costruire qualcosa, qualcosa di immateriale e di resistente: un film. Ed è così riuscito a ricordarci che il cinema ha talvolta una portata salvifica. Vorremmo poterlo ricordare più spesso.

Testo di Alessandro Annibali, tratto da Quinlan.it