Bonifacio Angius presenta Confiteor
Bonifacio Angius ospite in sala presenta Confiteor, come scoprii che non avrei fatto la rivoluzione

CONFITEOR – COME SCOPRII CHE NON AVREI FATTO LA RIVOLUZIONE/INTERVISTA A BONIFACIO ANGIUS
Il respiro e lo sguardo di Bonifacio Angius è quello di un autore non comune. Si è sempre a un passo dallo spaesamento rivolgendogli una domanda, attendendo una sua risposta. Bonifacio Angius viene al Postmodernissimo con la sua fatica più grande, il suo personale Confiteor dal fluviale sottotitolo, che è l’ammissione di una vita. E l’intervista che ne segue è una strana esperienza: egli tace, si limita ad annuire, talvolta erompe, molto spesso ha le lacrime agli occhi. Il pubblico segue l’incontro con una inquieta partecipazione: è come se quel che è stato appena raccontato sullo schermo continui anche adesso, nella poca luce intima della sala Visconti.
“Questo è un film che dedico a tutte le persone che vogliono cambiare vita”. Lo ha detto Angius, in una intervista, ma adesso quella vita che racconta è solo la sua. La storia ciclica di tre generazioni: quella di suo padre (che lui stesso interpreta nel film), la sua (che affida a suo figlio Antonio), e quella di Antonio, che è lì, in carne e ossa, e interpreta se stesso non appena Bonifacio torna Bonifacio. Strano e sconvolgente riconoscere le medesime dinamiche, comprendere che si è quel che si è stati, che non è mai semplice correggere le storture del passato. Confiteor è un’esperienza a cuore aperto che vuole la realtà e cade nella finzione e che ammette quanto nel cinema l’una non possa esistere senza l’altra: “Dici che vuoi raccontare la realtà, ma adesso sei seduto alla guida di un’auto e la patente non l’hai mai presa”, lo rimprovera Antonio in una scena decisiva. Cortocircuiti di Angius che costella Confiteor di paradossi per giungere alla verità pasoliniana per cui sempre di realtà si sta parlando: di quella che viviamo e di quella che filmiamo.
Come nel fulminante corto Destino ecco che la confessione è il centro del cinema del regista sardo che continua il percorso implacabile di autoanalisi e invocazione (Ovunque proteggimi) che cerca nel caos frenetico della forma (un film di colore e bianco e nero, di memoria e fantasia, di film che racconta un film da farsi, dove spazi reali e spazi mentali coabitano), la forma di una sostanza.
“Sono partito dai miei ricordi, certo, ma pure da qualcosa esterno a me. Da una canzone di Piero Ciampi che conosco a memoria. Una canzone in cui un uomo è percepito da tutti in un certo modo, ma poi dentro è tutta un’altra cosa. Perciò la confessione è fondamentalmente uno sfogo. Non c’è nulla da fari perdonare e c’è tutto da raccontare. Perciò il cinema è una dipendenza, per me, ma anche una salvezza. Senza non so cosa potrei fare”.
Sul palco è presente anche Stefano Deffenu attore protagonista per Angius in Perfidia, amico da sempre, collaboratore di ogni suo film, in questo caso pure produttore e interprete di un breve cameo. “Il lavoro intorno al film è durato molti anni. Si tratta di un progetto che Bonifacio ha in testa dal 2018. Poi è stato accantonato e nel mezzo c’è stato Destino e ci sono stati I giganti. Posso però dire che la struttura non è mai cambiata. Lo dimostra il lavoro che abbiamo fatto in fase di montaggio. Per quanto si sia intervenuto con qualche rimaneggiamento o modifica, l’evoluzione del film nella testa di Bonifacio è sempre stata la stessa. Conosceva a memoria quello che avrebbe mostrato”.
Fino al magnifico finale sul quale il regista sardo non riesce a rispondere nulla, travolto da un sentimento che travolge anche il pubblico in sala: il regista Angius porta l’attore-figlio Antonio in cima a una lunga strada dritta. Piazza la camera e gli dice di allontanarsi, di camminare finché non diventa un puntino lontanissimo. A quel punto lui lo chiamerà, gli griderà di tornare indietro e comincerà a filmare. Il ragazzo parte, il montaggio frammentato segue i suoi passi, il bianco e nero si colora. A un certo punto Angius chiama, dice che va bene così, che può voltarsi e tornare indietro, ma il ragazzo è troppo lontano, non lo sente, continua a camminare, oltre l’inquadratura. “Non mi sente, cazzo, non mi sente più”, borbotta il regista. E il film è finito.
Testo di Simone Rossi
Foto di Fabio Giannoni
Programmazione
Gallery











