La disciplina del silenzio – inchiesta sulla morte di Andy Rocchelli e Andrej Mironov
La morte di Andy Rocchelli e di Andrej Mironov sul fronte del Donbass è ancora una ferita aperta nel mondo del giornalismo italiano e non solo.

INTERVISTA A ANDREA SCERESINI, ALFREDO BOSCO, GIUSEPPE BORELLO, RINO
ROCCHELLI-LA DISCIPLINA DEL SILENZIO.
Il 24 maggio del 2014 il giornalista e fotoreporter freelance professionista Andy Rocchelli viene ucciso
insieme ad Andrej Mironov ad Andreevka, nella regione del Donbass. Salta in aria sotto i colpi di mortaio
Vasyliok provenienti dalla collina dove è ammassata la novantacinquesima armata dell’esercito ucraino.
“Quel giorno hanno sparato per uccidere”. Chi? Il documentario di Andrea Sceresini e Giuseppe
Borello, ospiti al Postmod giovedì 10 aprile, evade la risposta attraverso una puntuale ricostruzione lunga
cinquanta minuti che non mostra la benché minima incrinatura. Tutti i tasselli vanno al loro posto, tutti i
nomi sono nero su bianco, le dinamiche sono chiare, le gole profonde sono tantissime. Eppure, ad oggi,
una condanna non c’è stata. E anzi, dallo scoppio della guerra russo-ucraina tutto pare essere evaporato e
condannato all’immobilità. Verità giudiziaria e giustizia non sembrano poter coesistere.
Perché?
La risposta, la prima, arriva dal papà di Andy, Rino, che interviene in collegamento streaming e con
pacata fermezza, commuove e fa montare la rabbia: “Questa storia rischia dopo tanti anni di coprirsi di
polvere. Il filmato è del ’21, ha già i suoi anni ed è ancora irrisolto nonostante le sentenze italiane siano
chiarissime nel dare la responsabilità di quanto successo agli armati ucraini. Un attacco coordinato e
quindi da imputare ai comandanti, primo tra tutti il generale Mikail Zabrowski che avete visto
nell’intervista finale. Ci saremmo aspettati da un paese amico come l’Ucraina una trasparenza assoluta e
invece abbiamo assistito a depistaggi, false testimonianze e discese in campo inquietanti come la
partecipazione del ministro degli interni ucraino a quattro sedute del processo in una maniera del tutto
irrituale”. Limpido e fermo, Rino ha continuato: “La guerra ha congelato la situazione in attesa di tempi
migliori. All’inizio la politica italiana è rimasta alla larga dal processo. Dopodiché nessuno ha mai fatto
nulla. Risale a un anno fa un’interrogazione alla camera dei deputati che l’onorevole Tajani non ha mai
recepito. C’è sempre stato un totale silenzio e disinteresse”.
E la stampa italiana? Quella mainstream? Ha agito con la schiena dritta?
Risponde Giuseppe Borello: “Il doc è uscito in due puntate sulla Rai appena prima che scoppiasse la
guerra. Rocchelli e la sua storia fanno parte di questo stesso conflitto quando ancora nessuno se ne
fregava nulla. La stampa è mancata sul piano dell’inchiesta, un limite che fa sì che non si lavori per
arrivare in fondo a una storia. Per arrivare, voglio dire, a una verità. Ha un grande potere il giornalismo se
ben esercitato, un potere che va oltre quello della magistratura perché si può muovere in maniera più
agile, oltre le rigide procedure di legge. Questa parte, nel caso Rocchelli, è totalmente mancata”.
Il lavoro di Rocchelli invece è diventato strumento di propaganda ora in funzione anti-russa ora anti-
ucraina e questa è stata la ragione che ha spinto Sceresini e Borello a imbarcarsi nell’impresa. “Anche noi
siamo stati bollati come filo-russi. La nostra terzietà è stata messa in discussione. Ci siamo trovati a
rimbalzare contro un muro di gomma. La vera resistenza è arrivata dalle autorità. Dal 2022 la guerra è
diventata un tabù che si poteva toccare solo in un certo modo. Penso a un tema gigantesco, che emerge nel
nostro doc, e che è quello delle diserzioni. Raccontare che oltre ottocentomila uomini erano fuggiti (come
è documentato) dall’Ucraina per sottrarsi alla leva è stato interpretato come la volontà di dire che il Paese
non stava combattendo con forza per la propria liberazione. E quindi ecco di nuovo le accuse di fare gli
interessi della controparte”.
La forma de La disciplina del silenzio è un incontro di tecniche miste di regia, dalla spycam, al video del
cellulare, alle fonti internet, alle interviste frontali. “Alla fine tutto si traduce nel montaggio che è venuto
abbastanza naturale. Quando abbiamo iniziato a girare non sapevamo dove saremmo finiti; è nato tutto
casualmente. Una volta avuto a disposizione l’intero materiale invece tutti i pezzi si sono incastrati
naturalmente. Se dovessimo identificare il punto di partenza diremmo che tutto ha avuto inizio dalle
sentenze e dalla ricerca di qualcuno che potesse parlare, rivelare, fornirci delle prove. Infatti il cuore del
film è il nostro disertore trovato attraverso i social”.
Oggi di Rocchelli, professionisti morti facendo il proprio lavoro, ce ne sono sempre di più. Basti pensare
al numero enorme di fotografi e reporter periti nell’invasione di Gaza. Malamente l’opinione pubblica se
ne esce spesso con la battuta infelice purtroppo a un giornalista capita di trovarsi nel posto sbagliato. La
replica di Sceresini e Borello è netta: “Un’accusa avanzata è stata che Andy e Andrei se la fossero un po’
cercata. Si tratta di un’opinione imbecille. Il problema quando c’è una guerra è che molti giornalisti
tendono a ripetere a pappagallo quello che i propagandisti ti raccontano, a mostrare solo quello che
decidono di mostrarti quelli che ti trovi davanti, che non sono mai equilibrati, ma che stanno cercando di
far passare la loro visione della situazione. Il giornalista deve andare dove non viene portato, parlare con i
civili e non con i militari. Quel giorno Andy e il suo collega sono andati nel posto giusto, nel posto dove si
doveva andare. Se poi i militari ti sparano e ti uccidono sono loro ad aver commesso un crimine di guerra.
Ma per favore non confondiamo le cose”.
In finale alcune parole sul lavoro di Andy, sulla sua eredità, sulla passione di una vita. “C’è una foto
straordinaria di Andy in cui immortala dei bambini in una cantina alla luce fioca di una lampadina che li
illumina a malapena mentre attendono che finisca un bombardamento. Uno scatto stupendo che è una foto
identica all’assedio di Stalingrado durante la seconda guerra mondiale. Andy era questo. Una capacità
straordinaria di essere invadente. Che è quello che serve in queste situazioni. Invadente perché un
fotografo deve puntare la macchina da presa sulle vittime. Una posizione difficile e strana come quella di
una persona con la macchina fotografica pronta a documentare il dolore di un funerale: quella persona
verrebbe scacciata, non sarebbe benvoluta. Andy sapeva caricarsi sulle spalle questo fardello e allo stesso
tempo mostrare una delicatezza e una umanità smisurate. I suoi scatti hanno, fino all’ultimo, fino a quel
giorno di maggio nascosto nel bosco poco prima di essere colpito, testimoniato questa urgenza e questo
coraggio”.
Testo di Simone Rossi
Report fotografico di Eros Pacini
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