L’occhio della Gallina

Stefano Rulli introduce l'ultimo film di Antonietta De Lillo

L’occhio della Gallina

Venerdì 16 maggio al Postmod.
C’è Antonietta De Lillo alle prese con se stessa, in una autobiografia che racconta le origini di una regista (era il 1985 e il film era Una casa in bilico), una carriera lanciata e infine un oblio lungo vent’anni. Nel centro di questo racconto a cuore aperto, dove tutto però è ribaltato – proprio come il modo di chiudere gli occhi della gallina – le traversie di un film che segna lo stigma, Il resto di niente, anno 2004, le cui beghe legali, i cui strascichi al veleno, compongono una storia di violenza e isolamento che non ha eguali nel nostro cinema. “Ho realizzato il mio miglior film, la critica del tempo è stata un osanna, eppure, inspiegabilmente, quell’evento ha messo una pietra tombale sulla mia carriera”.
Ed ecco cosa racconta il doc della De Lillo, le storture della macchina cinema per citare un lavoro del 1979 firmato a quattro mani da Agosti, Bellocchio, Petraglia e Rulli. Quest’ultimo, Stefano, è intervenuto in sala proprio per raccontare il personaggio-artista De Lillo. “Antonietta si è imposta con la freschezza di chi ha talento e determinazione. Insieme ai vari Capuano, Corsicato, Martone è stata una punta di diamante della scuola napoletana. Ai tempi, mi riferisco agli anni Ottanta, non ci si muoveva tutti nello stesso calderone: c’erano movimenti registici che nascevano sparsi qua e là. Quello partenopeo è stato uno dei più vivaci e longevi del tempo”. L’occhio della gallina passato alle scorse Notti Veneziane e in cinquina agli ultimi David di Donatello è un viaggio dentro quarant’anni di cinema nostrano che si interroga sulle incongruenze – secondo la regista – di un’arte incapace di svincolarsi da aderenze politiche e sistemi di potere. Una dimensione paradossale e spesso inesplicabile che pare ormai essersi incancrenita. “Non è una questione di destra o sinistra. E non è neppure una faccenda di risorse. I soldi ci sono per il cinema, e forse le polemiche di questi ultimi giorni intorno alla cerimonia dei David non l’hanno ben chiarito. Non si tratta di tax credit o di finanziamenti che non vengono erogati. Il problema sono le regole e i modi con cui avvengono le spartizioni. Non si può favorire chi parte già avvantaggiato e penalizzare chi è quasi invisibile”. Qui interviene Stefano Rulli a chiarire: “Si finanziano gli avviamenti dei progetti: capita che una buona idea venga sostenuta, ma capita anche che nel suo svolgersi, nel suo svilupparsi, venga lasciata a se stessa. Insomma si affiancano le inaugurazioni dei progetti, ma poi si dimenticano”. Come nel caso de Il resto di niente che sbarca a Venezia, ottiene rassicurazioni dall’Istituto Luce, ma poi esce a fatica, in pochissime copie, schiacciato da un sistema di distribuzione intasato che quasi ne cancella il ricordo.
Ma L’occhio della gallina non è solo un j’accuse al sistema cinema; è pure – per converso – una
dichiarazione d’amore. Non a caso la parola che ritorna nel doc è proprio “sentimento”, un impulso che nasce dalle profondità di Antonietta finita a fare film perché “è capitato”, intercettando il sogno di un altro ed entrandoci dentro: Giorgio Magliulo, partner sul set e nella vita, padre di quelle figlie che adesso ascoltano la storia di una madre-autrice combattente e si rivedono bambine nei filmati casalinghi che spuntano qui e là nel film, attraverso un file rouge sentimentale che pare fuori dal tempo. Ma com’era diverso fare cinema negli anni Ottanta? “Si poteva partire da niente. Noi non avevamo niente, solo buone intenzioni. E qualcuno ha creduto in noi proprio perché eravamo giovani e senza esperienza”, sottolinea la De Lillo. “Questo oggi accade molto più di rado e se io continuo a lavorare a progetti come quelli dei ‘film partecipati’ è proprio per dare occasioni a coraggiosi emergenti”. Interviene qui anche Stefano Rulli, finisce un po’ più avanti nel tempo, al 2003 e a La meglio gioventù, e il suo è il racconto di un modo di fare le cose che non esiste più: “Io e Petraglia avevamo in testa da molto tempo questo progetto. Cercavamo un modo per raccontare una storia ad ampio respiro, ma la lunghezza sarebbe potuta essere un problema. Eppure si trovò un modo. Il film di sei ore finì a Cannes, vinse Un Certain Regard per il miglior film e da sceneggiato per la Rai da mandare in onda in quattro puntate, finì al cinema in due atti. Allora le cose cambiavano in corsa perché i rapporti erano più snelli e se vogliamo più bilanciati. C’erano gli sceneggiatori, il produttore e un regista: una triade che si sedeva a tavolino e trovava soluzioni e opportunità. Oggi c’è una sproporzione che ingessa l’intero meccanismo. Ci sono colossi come Netflix che dicono sì oppure no e non esistono spazi di trattativa.”
Le ultime parole di Antonietta De Lillo sono per l’eroina del suo film sfortunato. “Eleonora è una
rivoluzionaria nella Napoli del 1799 e ha il volto di Maria De Medeiros. Nel documentario la vado a trovare a casa e ricordiamo insieme quell’esperienza. Lei ha una figlia che ha chiamato Eleonora. Ci somigliamo molto e come succede tra anime affini ci capiamo all’istante. Le conversazioni non hanno avuto bisogna di alcuna preparazione, non c’è nulla di scritto. A ripensarci è stato un po’ come su quel set venti anni prima: tutto è fluito naturalmente, tutto sembrava già predisposto”.

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