Ritratto di un certo oriente
Marcelo Gomes, Eros Galbiati e il produttore Ernesto Soto presentano il film in anteprima

Perugia, 10 febbraio. Il Postmodernissimo è la data finale del tour italiano che ha portato a Torino, Milano, Bologna e Roma l’ultimo lavoro del regista brasiliano Marcelo Gomes, Ritratto di un certo oriente. Insieme a Gomes, a ruota, il produttore storico Ernesto Soto e l’attore Eros Galbiati, unica rappresentanza italiana in un film di molte lingue, interpretato da attori pescati ai quattro angoli del globo. Una serata di ‘cinema internazionale in città’ agevolata dagli amici di Kavac Film che hanno co-prodotto la pellicola e curato la distribuzione nel nostro paese.
Un film che racconta la vera migrazione libanese verso il Brasile alla fine degli anni Quaranta e che nella sua forma (il bianco e nero, il ritmo, la ricerca di un respiro interiore) pare attingere dal nostro glorioso cinema del passato. “Sono felice di essere qui stasera, qui con voi a parlare del mio film in una sala dedicata a Luchino Visconti”, ha esordito Gomes. “Il mio cinema cerca di creare un ponte con i maestri che hanno reso grande quest’arte: da ragazzo ho cominciato organizzando cineforum e i film che non potevano mancare portavano la firma di Fellini, Pasolini, Rossellini”.
Un film che nel viaggio oceanico verso una nuova vita compiuto da un fratello e una sorella non arretra mai di fronte alla possibilità dell’incontro. “Conoscere l’altro, mettersi nei suoi passi, comprenderne la lingua, le usanze, la religione, sono questioni centrali per me”, spiega Gomes. “Ho sempre inseguito storie che sapessero guardare l’altro come un’occasione di arricchimento, come il più prezioso tramite tra noi e la nostra evoluzione”.
C’entra l’Italia in questo viaggio dal Libano alla foresta amazzonica, in particolare Napoli. “Non potevamo girare davvero in Libano per la complessa situazione internazionale e ci siamo messi in cerca di una location che potesse restituire quelle latitudini”, ha spiegato Soto. “A un certo punto siamo finiti nel Gargano, ma quando si è messo a nevicare a marzo abbiamo capito che non era destino. Napoli è stata una folgorazione, il ritrovare quel che cercavamo senza bisogno di sovrastrutture. Era già tutto predisposto.”
Eros Galbiati nel film è un fotografo, colui che inizia all’arte dell’immagine il fuggiasco Emir e che per l’intero film immortalerà i momenti cruciali della storia. “Sapevo di dover giocare un ruolo meta-cinematografico. Il mio personaggio parla molte lingue, ma si esprime soprattutto attraverso l’immagine, quella che vine fuori dal buio di una camera oscura e spinge Emir a parlare di magia. Immortalare un momento è un atto tecnologico e fantastico allo stesso tempo: i due estremi tra cui oscilla il lavoro di Marcelo e che rendono ogni sua scelta, ogni inquadratura, ogni dettaglio, un’esperienza che travalica la visione”.
Il film passato in anteprima al festival di Rotterdam è tratto dal romanzo di Milton Hatoum, Racconto di un certo oriente. “Ho parlato a lungo con Milton, lui sa quanto sia innamorato dei suoi romanzi e forse per questo ha tenuto subito a dirmi che in sceneggiatura sarei stato libero di prendere una mia strada. I cambiamenti rispetto al romanzo ruotano tutti intorno al fenomeno migratorio: volevo renderlo il più attuale possibile. Sentivo di dover scandagliare, andare in profondità, in senso direi universale: com’è il viaggio? Come si rapportano le persone che condividono questo percorso? Quanto si cambia mentre ci si muove verso un altrove? Domande fondamentali, perché quando si viaggia si cambia carattere, si diventa qualcos’altro”.
Al termine della proiezione un lungo applauso ha accompagnato le luci in sala. Le domande appassionate rivolte agli ospiti hanno fatto il resto: “Grazie per aver mostrato di quanti amori diversi è capace una donna: moglie, sorella, amica, il personaggio di Emilie è una porta spalancata sul mondo”. “La cosa straordinaria è che i personaggi raccontati sono dei migranti solo per i primi tre minuti di film. Da quel momento in poi sono semplici persone che provano a vivere, amare, conoscere altre persone. Un racconto profondamente umanista”.
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