7 sconosciuti a El Royale. Film di apertura della Festa del Cinema di Roma. Un cast stellare per il ritorno al cinema del regista della serie cult Lost.
Sette estranei, ognuno con un passato da seppellire, si incontrano nel fatiscente El Royale, un hotel a Lake Tahoe sul confine tra California e Nevada. Nel corso di una notte, ognuno di loro avrà un’ultima possibilità per redimersi, prima che vada tutto in malora.
La prima che vediamo arrivare è una donna. Davanti alla porta dell’hotel El Royale, nei pressi di Lake Tahoe, situato esattamente sul confine che separa la California dal Nevada (con tanto di striscia visibile al suolo e ambienti diversificati a tema), c’è un prete. Dentro, un venditore di aspirapolvere. E finalmente, arriva anche un ragazzo che è l’unico dipendente factotum di quella struttura. Ultima, ma forse no, una giovane che viene additata come “hippie”.
Non sappiamo niente di loro, ma sappiamo – perché siamo spettatori smaliziati – che tutti nascondono qualche segreto; e sappiamo – perché Drew Goddard ce l’ha detto – che a El Royale, dieci anni prima, è successo un fatto brutto.
All’inizio 7 Sconosciuti al El Royale sembra quasi proporsi come il corrispettivo (neo)noir di quando fatto da Goddard con Quella casa nel bosco e l’horror: un gioco un po’ pop e un po’ metacinematografico, una costruzione a scatole cinesi dove solo progredendo con la storia e la consapevolezza, puoi arrivare a ipotizzare la topografia generale del racconto, in attesa di essere ancora sorpreso.
Anche il gioco sullo sguardo e il guardare, con quegli specchi a doppia via che vengono rivelati fin dal trailer, ricorda un po’ il film precedente del regista americano. Poi, però, mentre nuovi personaggi – non molti, il titolo è eloquente – entrano in scena, qualcosa cambia.
Accade allora che il gioco, pur divertente e ben congegnato, perda la sua importanza. Che gli incastri narrativi e temporali cedano progressivamente (ma mai completamente) il terreno a modalità di racconto più lineari. E che ci si inizi a rendere conto che questa volta Goddard mica voleva solo lavorare sul genere e le sue regole, omaggiarlo attraverso tradimenti, svelamenti e rielaborazioni: si inizi a capire che se 7 Sconosciuti al El Royale è ambientato in quel posto che sta letteralmente sul confine, e se è ambientato proprio nel 1969, che è il punto cardine in cui avviene il passaggio dai pacifici e ridenti anni Sessanta ai tumultuosi Settanta, e se perfino la tanta (bella) musica che sta nel film gioca a ping pong tra lo swing e il soul del prima, e il rock del dopo, un motivo c’è. Ed è ben preciso.
Attraverso il colorato e caldo caleidoscopio che mette in scena sullo schermo, fatto di schegge di vetro, verità, memorie, note, violenze, segreti, colpi di scena, riferimenti alla Storia (da Nixon in tv e Hoover al telefono, fino a un proto Charles Manson palestrato e un J.F.K. solo evocato e mai nominato), Goddard cerca di ricostruire l’immagine infranta del Sogno Americano, e dell’Innocenza di un paese. Un’innocenza che, in fondo, a vedere e ascoltare le storie dei sette sconosciuti, non è mai stata tale, perché il Vietnam, l’assassinio di Kennedy, e il massacro di Cielo Drive sono stati solo il precipitato di tutto quello che già esisteva da prima.
Per Goddard, però, il passato, e certi valori che rappresentava, era meglio di quel presente, e del futuro, e lo fa capire chiaramente, con le scelte che fa sui caratteri e sulle sorti dei suoi personaggi. Se si salva chi si salva, non sarà di certo un caso: magari chi nella vita ha più subito che altro, o chi la coscienza ce l’ha comunque sporca, ma sicuramente meno di altri.
E quella di una sorta di supremazia amorale di un passato comunque più pulito e sincero del presente corrotto e laido, alla fine, sembra anche una dichiarazione che 7 sconosciuti a El Royale fa anche sui tempi che viviamo.