Gloria Bell. Il Premio Oscar Sebastián Lelio fa (di) nuovo il suoGloria, riscrivendo una storia del cinema che racconta sempre la prima volta. Uscito in sala nel 2014, Gloria vince l’Orso d’argento a Berlino e ottiene un consenso plebiscitario.
Gloria Bell ha cinquant’anni, un marito alle spalle e due figli che non hanno più bisogno di lei. Dinamica e indipendente, canta in auto a squarciagola e si stordisce di cocktail e di danza nei dancing di Los Angeles. Una notte a bordo pista incrocia Arnold, un uomo separato che sogna un cambiamento. Gloria si lancia, Gloria ci crede. Arnold ci prova ma poi improvvisamente non è più là. Volatilizzato fino alla prossima promessa. Per lui il passato è una prigione. Tra amplessi e abbandoni, Gloria finisce al tappeto ma si rialza e balla. C’è sempre nell’idea di un remake la ricerca di un gesto artistico. La necessità di rifare l’originale non è (soltanto) un semplice esercizio di stile e sta lì tutta la sua bellezza, nella vertigine metafisica che rivela: rifacendo la stessa opera non otteniamo mai lo stesso film.
Al centro del film una donna forte e fragile insieme che sa risolversi quando tutto sembra affondare e risollevarsi quando cade con un bicchiere e una dignità rara. Gloria, interpretata da Paulina Garcìa, incarna nella versione originale la faccia moderna del Cile. Gloria è portatrice sana di un movimento vitale di giovinezza che esplode a Santiago durante una manifestazione studentesca.
Sequenza capitale del film che incrocia sull’Alameda una nuova generazione, che non ha ancora il suo posto, e una vecchia, che non ha più il suo. In questa conciliazione e in questa emergenza di forze vive, come negli ancheggiamenti di Gloria sulla pista, l’autore sogna l’avvenire del Cile. Ma traslocando la sua Gloria a Los Angeles, dentro un’altra cultura e un altro tempo, Sebastián Lelio firma un remake più universale e testimonia la vitalità di un genere più libero di quello che appare. Dirige e prolunga un’opera che lo ossessiona, dandogli un’altra possibilità e facendola risuonare con l’attualità. A restare irriducibile è la donna in primo piano. L’empatia che film e personaggio generano nasce dalla considerazione di una stagione della donna relegata abitualmente in subordine.
Con un movimento fluido e deciso, il piano sequenza del debutto cerca Gloria in fondo alla sala di un night-club, la camera si fa largo tra la folla di avventori fino a trovarla, a strapparla all’anonimato e a elevarla al rango di protagonista. Nel remake come nel suo modello, Gloria si fa portavoce di tutte quelle madri di famiglia che rifiutano di essere un mero accessorio. Ma se in Gloria la protagonista è incarnazione del pensiero del suo autore, che dagli esordi (La sagrada familia) soffia vita al corpo inerte del Cile, in Gloria Bell trova con Julianne Moore una femminilità meno desueta e perde coi vestiti fuori moda e gli occhiali alla Tootsie la frenesia dei paesi emergenti.
Dentro una Los Angeles indolente e a colori intensi si muove una donna e si consuma una relazione che fallisce l’incontro amoroso e non trova una maniera (altra) di stare insieme. Trasferita nell’America di Trump e dell’onda #MeToo, Gloria non è ‘corpo del Cile’ ma corpo di rottura storico che spara ‘palline di gelatina’ sull’ultimo rappresentante della pusillanimità maschile e dei modelli patriarcali. Se i marker ad aria compressa impugnati in Gloria rievocano i militari durante la dittatura, quelli del suo remake armano una ‘guerra tra sessi’ in cui gli uomini si defilano, tradendo il proprio disagio, e le donne prendono coscienza, ridefinendo la propria identità. Gloria Bell ha il volto diafano di Julianne Moore, che flirta da sempre con quell’abisso che chiamiamo intimità. Sotto il cielo blu della California, Sebastián Lelio fa corpo con la sua protagonista come aveva già fatto con le precedenti (Gloria, Una donna fantastica). Un’unione sacra che rende tutto possibile lontano dal paradiso e dalla compagnia degli uomini, perchè Gloria balla da sola e spera di andarsene ballando. L’autore cileno aggiunge pennellate di biondo al rosso(re) di Julianne Moore, cucendole un ruolo che indossa ogni volta come una seconda pelle: l’altra donna, la donna interiore non la donna d’interno.
John Turturro, amante divorziato ma incapace di disfarsi dei legami che lo allacciano a una ex morbosa, dona la replica reazionaria alla resilienza incandescente di Gloria. Gloria, senza essere un omaggio o una rivisitazione, ha il nome del film meno sperimentale di John Cassavetes, col quale condivide solamente echi lontani e il ritratto di una donna. Eppure quel titolo e quel nome, che nel remake guadagna simbolicamente il cognome, suonano come un’interferenza, una magnifica coincidenza umana. L’eroina porta quel nome glorioso come una scelta irreversibile sulle note della hit di Umberto Tozzi e sul refrain con cui ostinatamente si identifica: “Gloria, Glo-ria.”. D’altro canto non si cancellano trent’anni di dittatura (Gloria) e nemmeno secoli di dominazione maschile (Gloria Bell) senza l’energia di Gloria. Quella capacità di ripartire, di ritornare sulla pista e di danzare. Ancora.