Godzilla II – King of the Monsters. Non una bestia, né un mostro.
Forse il Re dei Mostri, come dice il titolo, ma ancor prima un dio con il potere di annientare l’umanità o lasciarle un’altra chance. Nella cultura giapponese degli anni 50, con i bombardamenti atomici ancora dolorosamente vividi nella memoria collettiva, Godzilla ha simbolicamente rappresentato la rabbia degli umani nei confronti della loro stessa natura autodistruttiva.
Godzilla II: King of the Monsters è generoso di creature giganti, di devastazioni urbane, di atmosfere apocalittiche perché tutto questo garatisce la spettacolarità cinematografica che il film deve avere. Poi, chi ha tempo e voglia di leggere tra le righe può trovare uno spiraglio di speranza, perché se Godzilla siamo noi in modalità autodistruttiva, forse una chance per salvarci la vogliamo davvero.
Michael Dougherty è il regista che subentra a Gareth Edwards. Del Godzilla del 2014 perdiamo la dilatazione dei tempi per andare più dritti al sodo, dove le mezze misure non esistono, perché quasi ogni inquadratura è elaborata in funzione della dimensione dei mostri e del film stesso. Però Dougherty è anche co-sceneggiatore e sa bene che non può bastare il combattimento di mostri a tenere in piedi una storia. Al contempo è al corrente che gli scenari apocalittici al cinema siano quasi una routine e che i personaggi servano a portare avanti una base narrativa, non certo a fare della filosofia alla Terence Malick.
Quindi, simbolismi a parte, il regista ci fa capire di essere consapevole di produrre intrattenimento e quando i dialoghi toccano la sfera esistenziale della razza umana, il personaggio interpretato da Ken Watanabe sdrammatizza chiamando in causa il biscotto della fortuna.
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