Il viaggio di Yao. Un bambino di un villaggio senegalese un giorno parte per Dakar per conoscere il suo mito, un attore francese di grande successo in visita in Senegal.
Seydou Tall, nato in Francia da famiglia senegalese, è una star del cinema. Separato da una moglie ostile e padre di un bambino di pochi anni, decide di andare in Senegal sull’onda di un’autobiografia di successo. Ad accoglierlo con entusiamo nel paese d’origine c’è soprattutto Yao, un ragazzino di tredici anni venuto da lontano a reclamare il suo autografo. I quattrocento chilometri coperti da Yao per raggiungerlo colpiscono l’attore che abbandona il tour promozionale per riaccompagnarlo a casa. Il loro viaggio deraglierà progressivamente, stravolgendo qualsiasi storia scritta prima.
Da Samba a Mister Chocolat, Omar Sy ha già lavorato intorno al tema dello sradicamento. Appena mascherato sotto il personaggio di un attore celebre, con Il viaggio di Yao va alla radice (e alle radici) della questione, recitando e co-producendo un film girato in Senegal e costellato di referenze autobiografiche.
Vestito da viaggio iniziatico, il road movie umanista di Philippe Godeau è una meditazione esistenziale sui rischi di un sogno senza radici, che minaccia un attore sovraesposto e impiegato principalmente nel mainstream francese e timidamente nelle produzioni hollywoodiane. Al cuore di un film diluito coi buoni sentimenti sussiste in filigrana un altro film, più divertente ed entusiasmante, dove Lionel Louis Basse, bambino radioso e immagine di un Senegal indomito e avido di cultura, incarna davvero il ruolo di provocatore insolente e iconoclasta di una star del cinema che si prende troppo sul serio e prende troppo sul serio il suo desiderio di essere l’amico ragionevole o il buon padre protettivo quando l’occasione lo richiede.
La personalità preferita dai francesi, che ha messo tutti d’accordo nel 2018 sbaragliando politici e calciatori, fa un passo di lato nel cuore dell’Africa e seduce con la sua umiltà e la sua sobrietà. Per Omar Sy quello di Seydou Tall è un ruolo inedito e direttamente legato alla storia della sua famiglia. Tuttavia conferma rovesciato un potenziale comico che gioca sovente intorno al concetto hollywoodiano di fish out of water. Se in Mister Chocolat, riflessione sulla condizione di un’artista nero nella Francia della Belle Époque, Omar Sy interpretava un nero in un mondo di bianchi, nel film di Philippe Godeau è un bianco in un mondo di neri. Un “Bounty”, come lo appella irriverente Yao, uno snack nero fuori e bianco dentro. Di fatto, Seydou Tall pensa come un bianco e la logica del Senegal gli sfugge.
Ma giù dallo schermo le cose sono più complicate di così. Perché se ieri l’attore, figlio delle banlieue e di immigrati africani, dichiarava di essere Rafael Padilla (Mister Chocolat), un artista che voleva esistere altrimenti e affrancato dall’etichetta che gli avevano incollato addosso, oggi non è mai stato così vicino ad essere se stesso dentro un ritratto in forma di racconto naïf che lo impegna intimamente (e finanziariamente).
Mentre i francesi guardano a Omar Sy come a un riconciliatore nazionale, a un attore terapeuticoche ripara la società, l’attore ritorna nel paese di suo padre, nella terra dei suoi antenati con pudore e senza artifici nella recitazione se non la sua verità personale. Disattendendo la disposizione comica per l’armonia, l’attore avanza emozionato e riflessivo in un film semplice ma mai semplicistico sulla paternità, la trasmissione e la ricchezza della differenza.
Il film di un uomo e di una vita, un film imperfetto ma di una sincerità disarmante. Omar Sy getta la maschera del magical nero, il nero senza passato né legami la cui sola funzione è di alleggerire le tribolazioni dei bianchi nevrotizzati (e paralizzati) dalle pressioni sociali (Quasi amici). Omar Sy è finalmente se stesso. È come non lo abbiamo mai visto e dove non lo abbiamo mai visto: da qualche parte tra l’Africa e la Francia, in quello che lo separa e in tutto quello che lo avvicina a Yao.