John McEnroe – L’impero della perfezione di Julien Faraut è uno straordinario, avvincente, ipnotico e stratificato film/saggio sul cinema e sul tennis. Sul cinema sportivo; sul gesto tecnico e atletico; su un microcosmo fatto di terra rossa. E su un campione probabilmente irripetibile: John McEnroe. Faraut smonta e rimonta idee e intuizioni di Jean-Luc Godard, Serge Daney e Gil de Kermadec per ricomporre tassello dopo tassello il mosaico McEnroe. Fino all’ultimo pezzo, quello mancante.
La pantomima in bianco e nero divertente e in origine involontaria che apre John McEnroe – L’impero della perfezione (John McEnroe: In the Realm of Perfection), poi rovesciata dal colore, dai gesti e dalle gesta di McEnroe e dall’esaltante crescendo musicale, ci svela limiti e illusioni dello sport e del cinema, architettando fin dai primi fotogrammi un lungo percorso speculare e stratificato fatto di citazioni, analisi, decostruzioni e ricostruzioni, fertili paralleli e continue mise en abyme. E così, bazinianamente, non possiamo che porci la prima domanda: che cos’è John McEnroe – L’impero della perfezione?
Un saggio teorico. Un documentario. Un biopic. Un film sportivo. Si muovono lungo diverse direttrici Julien Faraut e il suo film, figlio e debitore dell’esperienza godardiana, delle riflessioni di Serge Daney, del certosino lavoro di Gil de Kermadec. E del talento di John McEnroe, di quella classe cristallina che i ralenti tramutano in estasi.
Alla fine, sciolto dalle citazioni illustri, cadenzato da Mozart o dai Ramones, John McEnroe – L’impero della perfezione è un film sportivo che racconta e si racconta: nel ripercorrere l’anno d’oro di McEnroe, omaggiando sia il campione sia l’uomo, Faraut rende parallelamente onore al mastodontico lavoro di Gil de Kermadec, tennista e cineasta che ha consacrato la sua attività allo studio del gioco del tennis, e ci mostra il dietro le quinte, il making of della preziosissima pellicola didattica Roland Garros 1985 avec John McEnroe. Un film di focalizzazioni che si inseguono e si sovrappongono: i gesti tecnici di McEnroe e la loro messa in scena, scomposizione, analisi, ricostruzione in (una primitiva ma efficace) computer grafica. Film nel film, metacinema, metasport, un caleidoscopio di mirabilie.
Le seul film qui ait été bien tourné sur le sport, c’est malheureux à dire,
c’est un film nazi de Leni Riefenstahl sur les Jeux de Berlin de 1936.
Dans tous les autres, on n’a jamais vu de sportifs.
On y voit seulement des hommes ou des femmes courir.
– Jean-Luc Godard
È tranchant il giudizio di JLG. In buona parte, ha ragione. Il rapporto tra cinema e sport è indubbiamente fertile, ma non semplice. Non è semplice la narrazione dei grandi eventi (si vedano i film olimpici), ma è soprattutto complicata la messa in scena dello sport, del gesto atletico e tecnico.
Prendiamo due estremi. La celeberrima rovesciata di Pelé o l’altrettanto memorabile bicicletta di Ardiles in Fuga per la vittoriae le performance da beacher di C. Thomas Howell ne I re della spiaggia. La perfezione dei gesti di due campioni e l’impresentabile mancanza di tecnica, fisico e atletismo di Howell. La lista dei secondi casi è lunga, anche se spesso mitigata da un apprezzabile contorno narrativo che favorisce la sospensione dell’incredulità – come sarebbe altrimenti possibile crederenella vittoria di Ralph Macchio/Daniel in Karate Kid – Per vincere domani?
Tra le molteplici suggestioni di John McEnroe – L’impero della perfezione, prendiamo in prestito le considerazione di Serge Daney sul tempo, evocato come punto di contatto tra cinema e sport: «il cinema è tempo», «il cinema è spazio», «il cinema è gesto». Anche lo sport. Critico cinematografico che si è prestato alle cronache tennistiche, Daney traccia imprescindibili similitudini. Gesto, spazio e tempo nel rapporto cinema/sport determinano la riproducibilità della singola disciplina sul grande schermo: è soprattutto il tempo (la durata del gesto atletico/tecnico) a determinare il grado di difficoltà della messa in scena, creando un muro probabilmente invalicabile per le discipline sportive estremamente tecniche, fatte di centesimi di secondo, di precisione millimetrica, di contatti che spesso necessitano del ralenti per essere studiati, sezionati, compresi. Il tennis e la pallavolo, ad esempio, non sono sport facilmente riproducibili sullo schermo – riavvolgiamo il nastro: non erano facilmente riproducibili, ora c’è la computer grafica e tutto può cambiare, come ci insegna il triplo axel di Tonya.
In questo senso, John McEnroe – L’impero della perfezione è un film sportivo perfetto, interpretato da un campione/attore che non può essere sostituito, imitato o riprodotto, perché nessuno potrà mai riprodurne i movimenti, l’estrema sintesi tra armonia estetica e ferina efficacia. John McEnroe è l’orso di Kleist (Il teatro delle marionette), mentre i suoi imitatori non potrebbero che essere spadaccini destinati al fallimento.
McEnroe è anche un maître du temps, colui che può dilatare a piacimento uno scambio, un game, una pausa. Attraverso i ralenti o i siparietti polemici con arbitro o spettatori (o il terreno di gioco), John McEnroe – L’impero della perfezione delinea un ritratto alquanto sfaccettato dell’atleta, immergendosi nel suo microcosmo di terra rossa, nelle tattiche anche psicologiche, nella gestione del tempo, nella preparazione dei colpi, nei gesti e nelle pose, nelle rotazioni. Nella sistematica alternanza delle rotazioni. Una sequenza è illuminante: assistiamo ammirati a un susseguirsi di palle corte, alla resa degli avversari, al tempo del gioco che si ferma al secondo inevitabile rimbalzo. In realtà, quando la racchetta di McEnroe tocca la palla, il tempo è già finito. Poi basta un solo drop shot di rovescio per comprendere pienamente il concetto di imprevedibilità. Di perfezione. McEnroe è l’orso. McEnroe è il maître du temps.
Aveva questo desiderio feroce di vincere.
– Kay McEnroe, The Telegraph, 7 luglio 1981.
John McEnroe – L’impero della perfezione apre continue parentesi, ma non si perde mai. È anche un biopic, indubbiamentesui generis. A Faraut bastano poche pennellate: le parole di Kay McEnroe, la ritrosia del giovane McEnroe fuori dal campo, l’aneddoto di Tom Hulce e Amadeus di Forman. Ancora una volta, cinema e sport. Ancora una volta, il tempo. John McEnroe in campo era uno straordinario attore, artista, inventore. In continua lotta con tutto e tutti, anche se stesso. Lotta e tensione. Tensione creativa.
Ancora Bazin, per una vittoria o sconfitta ogni pomeriggio. La perfezione inseguita e raggiunta da McEnroe è sacrificio, devozione, estenuante ripetizione. È una famiglia alle spalle che sostiene e pretende; è la solitudine dentro e fuori dal campo; è l’amore e l’astio degli spettatori – ma che ne sapete voi di un rimbalzo fasullo? È il rumore di una macchina da presa che mina la concentrazione. Il microcosmo di terra rossa, di erba o di cemento richiede e pretende la totale astrazione. Altro che Borg McEnroe.
Le cinéma ment, pas le sport
– Jean-Luc Godard
John McEnroe – L’impero della perfezione cerca di non mentire, distilla le parole, lascia spazio soprattutto alle immagini. Alla verità. Alla verità osservata col microscopio. Ancora il ralenti, la dilatazione del tempo e del gesto. La mise-en-scène della meraviglia. Nel gioco delle specularità, la voce narrante di Mathieu Amalric era l’unica possibile. Lui che è un Tom Hulce perennemente in modalità Amadeus; lui che è un McEnroe senza racchetta.
La verità dello sport è anche quella che ci racconta John McEnroe – L’impero della perfezione nella sua ultima parte. Roland Garros 1984. John McEnroe vs Ivan Lendl, l’imperfetto perfezionista ceco. Finirà al quinto set, con un gesto apparentemente perfetto. Fuori di un soffio. Fuori nella sua ripetizione, fuori da qualsiasi angolazione, fuori anche nei ralenti. La perfezione è anche nella sconfitta. Que viva McEnroe!
Selezionato in concorso alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro 2018, John McEnroe -L’impero della perfezione è straordinario, avvincente, ipnotico, stratificato. Ha iniziato il suo tour festivaliero alla Berlinale, poi Cinéma du réel e tutto quel che segue. Come un ATP Tour. Da vedere e rivedere. Da sezionare come i suoi stessi oggetti/soggetti di studio, perdendosi tra infiniti rivoli, inseguendo altri punti di vista, altre suggestioni. McEnroe e la sua racchetta, con quella impossibile tensione delle corde. La posizione del piedi al servizio, le rotazioni della seconda palla, i colpi senza peso. Una fionda con la precisione di un cecchino. E poi nuovamente JLG, Daney, Kermadec. Ma anche Boltanski e le animazioni abbozzate del film didattico Quelques regles du tennis (1978). Nuovamente il cinema. Le livre d’image. Le cinéma ment, pas le sport. Game, set, match.
Recensione tratta da Quinlan.it