Joy. La fiaba di una Cenerentola moderna sorretta dalla straordinaria versatilità di Jennifer Lawrence, protagonista assoluta, vincitrice del Golden Globe e candidata all’Oscar.
Joy è una cenerentola moderna: sogna un principe, ha una sorellastra che non perde occasione per denigrarla, e passa gran parte della giornata con le ginocchia a terra, a passare lo straccio sul pavimento. Sarà proprio il brevetto di un mocio a portarla dalle stalle alle stelle, ma la strada sarà tutta in salita, costellata di tradimenti, delusioni e umiliazioni, un po’ come nelle soap opera che la madre, malata immaginaria, guarda giorno e notte, confondendo il sonno di Joy e annullando il confine tra fantasia e realtà.
La prima parte dell’ottavo film di David O. Russell intriga e cattura, pur mostrando apertamente i caratteri stilistici e narrativi che ne pregiudicheranno il proseguimento: su tutti la confezione fiabesca in voice over del racconto fatto dalla nonna. La confusione che regna nella famiglia, nella casa e nella mente della protagonista è un caos buono: anticamera possibile di un incubo quasi lynchiano (Isabella Rossellini ci sta d’incanto), quadretto grottesco dai costumi fuori luogo e dal trucco indelebile (alla Falcon Crest, appunto) e prologo audace nel quale la lettura del letargo della cicala si abbatte sul personaggio interpretato da Jennifer Lawrence con la forza di un’epifania traumatica, risvegliandola dal coma del desiderio e dell’azione.
Sfortunatamente, non si esce mai dalla Soap, e anzi: con l’avanzare del film e della trasformazione del personaggio, il regista si addentra consapevolmente in un territorio, quello del linguaggio televisivo, che rischia di trascinarlo con sé e reagisce oppone il cinema solo a parole, con l’infelice sequenza in cui il giovane producer Neal spiega a Joy il mondo delle televendite citando Selznick (David O.) e altri grandi produttori e tycoon che hanno fatto la storia del cinema americano. Quando, nella sequenza texana filtrata attraverso la lente del moderno western, dopo il dialogo ridicolo tra Joy e l’uomo col cappello che credeva di poterla fregare, il regista interrompe il piano americano della pistolera solitaria per non svelare i fianchi abbondanti della star, capiamo che non c’è verità possibile nel registro scelto per Joy, ed è allora che scende a pacificarci con noi stessi una bianca spruzzata di neve finta.
Quattro montatori accreditati non sono evidentemente bastati per far convivere in maniera fluente e credibile la fiaba della ragazza che non ha mai smesso di sognare, l’autentica scalata imprenditoriale di Joy Mangano, la donna che ha creato un impero dal nulla, e l’immaginario cinematografico a metà tra melodramma e working class movie. Come nella finzione, tocca che la Lawrence faccia da tutto da sola e non le difettano certo capacità e versatilità, ma l’occasione è sostanzialmente mancata.