Koudelka fotografa la Terra Santa. Tra il 2008 e il 2012 Josef Koudelka, fotografo dell’agenzia Magnum il cui nome è indissolubilmente legato agli scatti della fine della Primavera di Praga del 1968, documenta a più riprese la costruzione del muro tra Israele e Palestina. Catturare l’intuizione, il punto di vista del fotografo, il suo sguardo sul reale: è in quel punto preciso che Gilad Baram (a sua volta fotografo, sorta di assistente invisibile del maestro nato nel 1938) posiziona la sua macchina da presa: alle spalle di Koudelka, mentre questi cerca la giusta distanza da cui fermare il tempo. Baram lo pedina per riprodurne il processo creativo, mentre Koudelka scopre paesaggi nuovi o torna su scenari, per lo più in esterni, già catturati dall’obiettivo e ne riscontra stratificazioni, cambiamenti.
Con una profondità simile a quella adottata da Wim Wenders nel meraviglioso Il sale della Terra su Sebastiao Salgado (2014) Baram si intrufola nella composizione dello scatto, senza temere attese, imprevisti, silenzi, ripensamenti, uscite di campo.
Oltre al parallelismo tra l’esperienza del Muro tra Cecoslovacchia ed ex Germania Est e di quello in Terra Santa (sintetizzata dalla formula «un muro, due prigioni»), e il tema dell'”esilio” (a cui fa riferimento anche uno dei suoi libri, Exiles) il dato più rilevante del documentario è la restituzione di valore al tempo e ai luoghi, a quel paesaggio che «non può difendersi da solo». Le immagini di Koudelka – formato orizzontale, sei centimetri per diciassette, scattate tutte in pellicola con una macchina panoramica – sanno restituire la violenza del muro senza mai riprenderla direttamente, trasmettere la sua folgorazione laica, casuale per l’oggetto, di cui al tempo stesso percepisce la spiritualità. Le inquadrature digitali fisse di Balam incorniciano, anticipano e accompagnano i quadri solenni, iperbilanciati su film in bianco e nero. Tra loro, necessari come una benedizione, stacchi a nero che costringono a riflettere sempre di più sull’origine di ogni immagine. E a mantenere quella “sana rabbia”, lo spirito critico, d’osservazione, in ogni posto del mondo. A maggior ragione in quelli dilaniati dalla Storia.