La grande abbuffata. 17 maggio 1973. Al Festival di Cannes viene presentato La Grande bouffe. Al termine della proiezione Ferreri e gli attori verranno subissati di fischi e di insulti. Ci sarà chi arriverà ad accusarlo di assassinio della lingua francese e della sua tradizione letteraria (nel film si cita un tiglio amato dal poeta seicentesco Nicolas Boileau). Pressoché unici a difenderlo sono i Cahiers du cinéma che lo considerano come l’opera di chiusura di una trilogia che ha avuto come suoi predecessori sul piano della provocazione intellettuale e sociale Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci e La maman et la putain di Jean Eustache.
Si può dire che Ferreri ha ottenuto l’esito atteso. La sua è infatti una critica feroce alla borghesia. Nato probabilmente come prima idea nel corso delle cene organizzate da Ugo Tognazzi, a cui il regista partecipava definendo le portate pantagrueliche come un suicidio, il film si presenta come un ritratto grottesco di esponenti di una classe sociale destinata all’autoeliminazione consapevole.
Sinossi. Quattro amici, un gourmet, un produttore televisivo, un pilota d’aereo e un magistrato decidono di ritirarsi in una villa rifornendosi di prelibatezze di ogni tipo. A loro si unirà un’insegnante che assisterà alla realizzazione del loro progetto: continuare a mangiare fino a morire.
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