A grande richiesta dopo il passaggio nella rassegna #LostAndFound vi riproponiamo: Last Summer, piccola perla del cinema italiano, ignorato completamente dal mercato.
Provare per credere.
Una donna giapponese ha quattro giorni di tempo per stare con suo figlio, dopo di che non potrà più vederlo per undici anni. Quattro giorni per recuperare il legame con lui, prima di lasciarlo di nuovo, troppo a lungo. Quattro giorni da trascorrere sullo yacht della facoltosa famiglia del padre del piccolo Ken, sotto lo sguardo vigile e invadente dell’equipaggio.
La distanza temporale che sta per separare Naomi e Ken suona sconfinata come la distesa marina. Incolmabile rischia di essere anche la distanza emotiva, affettiva, psicologica. Lo yacht è fermo, al largo del mare di Otranto, ma Naomi ne ha di strada da fare, per avvicinarsi al cuore di suo figlio in quelle poche ore, e può solo sperare in un vento favorevole, o nel dio del mare.
Come nei migliori romanzi di Banana Yoshimoto, qui collaboratrice alla sceneggiatura, più nuda è l’ambientazione, più stratificata e profonda è l’indagine dell’anima, più significativo è il minimo gesto, il singolo oggetto, il boccone di cibo, la lama di luce.
Per una volta, la riunione di talenti non è uno specchietto per le allodole ma una bella prova di collaborazione. Sull’ottima idea del regista s’innestano la scrittura di IgorT, i costumi di Milena Canonero -che ibridano oriente e occidente-, il montaggio sapiente di Monika Willi, le forti interpretazioni di tutto il cast. Ma la vera madre, nel film, non è Naomi, bensì l’imbarcazione progettata da Odile Decq, un contenitore vivente, che il regista sfrutta al massimo delle sue possibilità, giocando con gli spazi interni e con i tanti diversi punti di vista che permettono. Ugualmente, il punto di vista è anche oggetto narrativo: quello della protagonista regge il film, mentre si prende man mano più spazio anche quello del bambino, e quello dell’equipaggio, da blocco unico, si frantuma al suo interno, sempre e soltanto secondo una silenziosa logica dei sentimenti.
Le tappe del ricongiungimento sono la materia di cui è fatto il film e arrivano allo spettatore fluidamente, placidamente, come portate dalle onde, quando è la loro ora e mai prima. Il contatto fisico è l’ultimo passo, conquistato con il tempo e la fiducia, anteponendogli a lungo quel pudore e quel rispetto che sono caratteristici della cultura nipponica, ma anche e soprattutto baluardi della sensibilità umana.
Un gusto dell’eleganza che non è fine a se stesso né alla meccanica illustrazione del milieu sociale; un film che si esprime con il colore, e parla delle sfumature della libertà – dallo sradicamento alla dorata prigionia-, senza mai calcare inutilmente la mano.