giovedì 1 gennaio
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Irene Dionisio
Un film di Irene Dionisio. Con Fabrizio Falco, Roberto De Francesco, Christina Rosamilia, Alfonso Santagata, Salvatore Cantalupo.
Titolo originale Le ultime cose. Drammatico, durata 85 min, colore - Italia, Francia, Svizzera, 2016 - Luce Cinecittà.

Le ultime cose.  Film in concorso alla Settimana Internazionale della Critica del Festival di Venezia

Stefano un giovane perito, viene assunto dal banco dei pegni per attribuire un prezzo ai beni che la gente non può più permettersi. Il suo capo, Sergio, è un cinico burocrate che gestisce il traffico delle aste attraverso le quali vengono rivenduti gli oggetti impegnati che i proprietari non hanno più potuto riscattare. Michele è un anziano pensionato che non arriva a fine mese e che, per aiutare la famiglia, accetta di dare una mano ad Angelo, uno dei tanti loschi figuri che si aggirano intorno al banco dei pegni per lucrare sulle sventure altrui, dando vita (si fa per dire) a quel mercato nero e a quel sottobosco di malaffare creato dal bisogno. Sandra è una trans costretta ad impegnare una pelliccia per sopravvivere in un mondo che rifiuta la sua nuova identità.
Le ultime cose, lungometraggio di esordio di Irene Dionisio, è un excursus nei gironi infernali del debito ingenerato da anni di crisi economica, e un viaggio lungo quella spirale al ribasso che si sta mangiando la dignità di molti italiani. Con grande economia di mezzi e di immagini, Dionisio racconta la struttura a matrioska della nuova povertà e il sistema di scatole cinesi in cui la maggior parte di noi oggi è rinchiusa, spesso contestualmente vittima e carnefice. Un sistema che la regista riproduce visivamente con inquadrature a cornici concentriche e una scenografia (di Giorgio Barullo) che alterna luoghi asettici e senz’anima a squallidi locali di contrattazione, entrambi immersi in una luce livida che ne accentua il look da obitorio. E le musiche (di Matteo Marini, Gabriele Concas e Peter Anthony Truffa, alias Sweet Life Factory) sottolineano senza invadere la scena la progressione funerea della storia.
Ai pochi facoltosi che affollano le aste, intenzionati ad aumentare il divario economico fra se stessi e il resto della società, corrispondono i molti costretti a vendere le proprie “ultime cose”, vestigia di un benessere scomparso e di un’identità sociale tramontata. Una sfilata di morituri in procinto di impegnare il proprio corpo, o anche “solo” la propria anima, non più in grado di attribuire valore alla propria esistenza nella costante percezione di non “dover essere qui”, e vulnerabili alla ferita letale dell’umiliazione. Una vetrina di beni non riscattabili, come l’onore, o il rispetto di sé, in un universo grottesco dove il confine fra debito e usura è sempre più labile, sempre più esempio di quell’economia di scala di cui banche, monti dei pegni e strozzini sono i gradini in discesa.
Sergio, il burocrate 50enne (interpretato da Roberto De Francesco con lo sguardo gelido del coccodrillo predatore), e la solerte e soave dirigente del banco dei pegni, agghiacciante nella sua serena efficienza impiegatizia, rappresentano quella parte d’Italia che ha saputo (e voluto) trarre profitto dal tracollo economico dei più. Stefano, Sandra, Michele invece sono la moltitudine di giovani, vecchi e donne sole (spesso con figli a carico) sacrificati ad una recessione che ha assunto proporzioni postbelliche.
È dunque un neo-neorealismo quello di Irene Dionisio, che porta dentro l’eredità dei De Sica e dei Rossellini, ma anche il passaggio che il neorealismo italiano ha compiuto attraverso cinematografie più recenti come quella rumena: a riprova che il racconto di ordinari squallori e di odissee burocratiche che sembrava non riguardarci oggi ci appartiene, cinematograficamente come esistenzialmente. Dionisio ne racconta il quieto strazio con pudore e ciglio asciutto, circoscrivendone nitidamente gli spazi, affrontando tematiche scomode senza concessioni al gusto del pubblico, talvolta attraverso lo sguardo asettico di quelle videocamere che raccolgono acriticamente i passaggi della nostra esistenza quotidiana e se ne interessano solo se testimoniano un crimine compiuto, mai un crimine subìto. La sua regia limpida è una prova di coraggio, va dritta al cuore del problema e di quel pubblico che la saprà seguire, come merita.