Stonebreakers. Il documentario di Valerio Ciriaci, presentato in anteprima mondiale al 63° Festival dei Popoli, racconta i conflitti attorno ai monumenti sorti negli Stati Uniti durante le proteste di George Floyd e le elezioni presidenziali del 2020. Mentre le statue di Colombo, dei Confederati e dei Padri Fondatori cadono dai loro piedistalli, i miti trionfalisti della nazione vengono messi in discussione.
Il documentario racconta la recente battaglia relativa all’abbattimento delle statue coloniali negli Stati Uniti. Da un lato il nazionalismo ottuso alla Trump, i cappellini, le bandierine, l’ignoranza strafottente come regola di vita; dall’altra la cancel culture, i giovani discendenti degli schiavi che rivendicano diritti e pretendono la riscrittura della (loro) storia. Poi i siti storici della guerra civile, il laboratorio di uno scultore che ripara statue assaltate, vari esempi di come un popolo non sappia (non voglia, non possa) fare i conti con la (propria) storia.
Il punto di vista di Valerio Ciriaci è quello del cineasta – ravvicinato e il più preciso possibile – ma in più occasioni è semplicemente quello dello straniero: da una prospettiva esterna coglie nelle varie e contrastanti forme di lotta politica negli Stati Uniti del XXI secolo un’inquietante uniformità di linguaggio; l’esibizione della lotta che accomuna conservatori e liberali, bianchi e neri, gente del Midwest e gente delle due coste. Come diceva Godard, gli americani non hanno storia e dunque la rubano agli altri. Qui, però, si va anche oltre: qui si scorge l’incapacità di raccontare il passato come fatto in sé, ma solamente come premessa narrativa di un presente continuamente da rinnovare.
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