Una donna sposata
Drammatico | Francia | 1964 | 94 minUna donna sposata. Une femme mariée. Prosegue l'Utopia Godard con una altra perla rara tratta da una delle filmografie più importanti della storia del cinema. Incastonato tra alcuni dei grandi classici della filmografia di Godard – dell’anno prima è Il disprezzo, l’anno successivo arriverà Pierrot le fou – Una donna sposata è un titolo pressoché dimenticato, e probabilmente assai poco visto: va dunque riconosciuto il merito alla Festa di Roma di averlo scelto per omaggiare la memoria di Godard, morto novantunenne appena un mese fa.
Una donna sposata al posto de La donna sposata, il titolo che Jean-Luc Godard avrebbe voluto: la censura francese dell’epoca dimostrò di aver capito assai bene il senso del film se pretese questo cambiamento. E a distanza di quasi sessant’anni, nonostante di quando in quando emergano le ingiustificabili accuse di misoginia, l’ottavo lungometraggio di Godard dimostra ancora la sua acutezza nell’utilizzare il cinema e il suo linguaggio come testimone del disfacimento della cultura borghese, auto-frammentatasi sotto il peso del proprio rito.
Nel 1964 L’allora trentaquattrenne regista svizzero era presente a Venezia con La femme mariée, il suo ottavo lungometraggio che era stato girato in gran fretta proprio per poter prendere parte alla kermesse. Di più, il film era nato quasi per scherzo tre mesi prima, al Festival di Cannes 1964: il direttore della Mostra Luigi Chiarini, dopo la proiezione un po’ carbonara di Bande à part, non inserito ufficialmente nel programma del festival, “bacchetta” Godard per non aver presentato il film a Venezia, dove sarebbe stato scelto per il concorso. In tutta risposta Godard afferma che ha tutte le intenzioni di partecipare alla Mostra, solo che il film deve essere ancora girato. Le riprese di quello che diverrà – si vedrà più avanti perché – Une femme mariée, e dunque in Italia Una donna sposata, inizieranno addirittura solo il 29 giugno, anche perché al momento della sua chiacchierata con Chiarini Godard in realtà non ha ancora nessuna idea precisa di cosa voglia girare.
Ci sono molti modi per cercare di comprendere un film, o di analizzarlo, o almeno di studiarlo in modo non troppo superficiale. Il più canonico e diffuso parte ovviamente dallo studio del testo filmico, del montaggio definitivo, del prodotto nel senso più puro del termine, vale a dire il risultato terminale di un lavoro industriale: compiere tale esercizio su Una donna sposata senza allargare lo sguardo, e senza entrare nel dettaglio di come si è arrivati all’oggetto cinematografico di un’ora e mezza che è reperibile oggi nel mercato dei dvd e dei blu-ray, o visionabile in dcp o in 35mm in qualche fortunata retrospettiva, significa probabilmente non aver ben compreso il senso stesso del lavoro portato a termine da Godard. A comprenderlo bene fu invece, e non deve sembrare un paradosso, la censura francese dell’epoca. Il 29 settembre 1964 la commissione che si occupa di assegnare il nulla osta per la distribuzione in sala boccia in toto La femme mariée. Da un lato c’è ed è inevitabile la reprimenda contro le nudità – per quanto il montaggio di Godard e soprattutto il taglio delle inquadrature riducano i rischi di intervento censorio, come si avrà modo di scrivere più avanti –, ma dall’altro soprattutto si ha quell’articolo determinativo che non è proprio accettabile per la morale comune. “La” donna sposata equivale a supporre che ciò che viene raccontato nel film non sia un caso specifico, ma la condizione della donna all’interno della società borghese. Godard deve dunque accettare il compromesso e che il suo film parli solo di “Una” donna sposata, e anche così non è facile convincere la commissione, al punto che deve intervenire André Malraux in persona, e perfino Georges Pompidou. La censura ha però colto nel segno, perché ha compreso – meglio di molta critica dell’epoca, e forse anche di oggi – come a Godard interessi solo relativamente portare avanti una storia: Charlotte e le sue relazioni, quella coniugale e quella adulterina, sono solo un diversivo, o per meglio dire servono a portare avanti sotto la superficie il discorso che realmente interessa al regista. Una donna sposata è un film che cerca di analizzare la realtà collettiva, la massa, il popolo nella sua abitudine strutturale: il destino di Charlotte, che non sa di chi sia effettivamente il figlio che porta in pancia, è del tutto irrilevante, quel che conta è la quotidianità di un’esistenza condivisa, che è dopotutto uniformata da un mondo mosso da una propaganda pubblicitaria ottundente, esasperante.
Come ebbe a dire lo stesso Godard Una donna sposata è un film umanista che cerca di descrivere un mondo che ha completamente rimosso l’umanesimo dalla sua struttura portante. In tal senso appare illuminante la scelta di portare in scena nel ruolo di sé stesso Roger Leenhardt, intellettuale centrale nella nascita della Nouvelle Vague – subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale fondò a Parigi con Robert Bresson e Jean Cocteau il cineclub Objectif 49, punto d’incontro indispensabile per la formazione cinefila della gioventù cittadina – anche grazie a Les dernières vacances, film che illumina i futuri rivoluzionari del cinema francese sulla posizione morale da scegliere nell’affrontare un racconto per immagini. Quasi vent’anni dopo il loro primo incontro Godard lo chiama dunque sul set e gli affida un ruolo chiave: essere sé stesso. Leenhardt, con la propria vera posizione intellettuale non può che cercare di ricondurre la donna sposata alla realtà, quella in cui ancora esiste Auschwitz, per quanto in Germania si stia facendo di tutto per rimuoverlo dalla memoria e dall’immaginario. “Ah, sì certo, Hitler!”: impiega qualche secondo Charlotte prima di capire a cosa debba ricondurre la parola Auschwitz. A neanche venti anni dalla fine della guerra il mondo ha già dimenticato. Certo, si può andare al cinema a vedere Notte e nebbia, ma lo si fa per incontrarsi tra amanti, con la stessa accortezza che si presterebbe a una farsa in costume, a un film hollywoodiano, o forse persino a una pubblicità. D’altro canto il marito di Charlotte si propone di andare a comprare dei porri solo perché alla radio qualcuno ha spiegato come possano far bene per abbassare il livello di colesterolo nel sangue. Godard, già preconizzando alcune delle opere a venire, riesuma gli studi di etnologia alla Sorbona, e applica la scienza sociale al cinema. Non è un caso che proprio nel 1964, rispondendo alla domanda di un intervistatore, il regista sfoderi una frase destinata a divenire celebre: «Ora ho delle idee sulla realtà, mentre quando ho cominciato avevo delle idee sul cinema. Prima vedevo la realtà attraverso il cinema, e oggi vedo il cinema nella realtà».
La rappresentazione in quanto tale, il ricalco costruito della realtà, non è più affare interessante per Godard: che importanza hanno i dialoghi tra due innamorati a letto, cosa potranno dirsi di così irripetibile o sorprendente? E allo stesso tempo, e qui è Charlotte a incalzare l’amante, attore teatrale, come si fa davvero a discernere tra vita vissuta e parte recitata, se l’umanità è sempre più tesa debordianamente a una rappresentazione dell’istante del “vero”? Così Godard elimina ogni residuo di cinema canonico, e con sguardo neutro, netto, forse anche spietato, osserva la donna sposata in scena come farebbe un entomologo. Ma il cinema è suono, e montaggio, e così se si vogliono raccontare i frammenti di una vita (qualcuno ricorda i famosi “tranche de vie” che Hitchcock prendeva in giro?), e il sottotitolo del film è proprio Frammenti di un film girato nel 1964, bisogna avere il coraggio di frammentare. Ecco dunque che le scene di sesso – ed è attorno alla sessualità che ruota l’intero film – sono composte esclusivamente di dettagli: una mano, una pancia, un occhio. Sibillinamente si potrebbe affermare che la scelta sia dettata dalla necessità di non indispettire troppo la censura, e probabilmente è vero, ma non è d’altro canto lo stesso motivo che spinse Hitchcock a girare in quel modo (e in bianco e nero) Psycho e la sequenza dell’omicidio sotto la doccia? La necessità si fa non virtù, ma linguaggio, e il linguaggio serve a sovvertire la prassi, a negare il meccanismo dell’industria. Godard fa a pezzi la borghesia, nel vero senso della parola: la spezzetta, la sminuzza, ne tiene insieme i cocci in modo da non potersi mai beare di un totale, che negherebbe con il suo assunto di finzione “credibile” l’idea di cinema che sta ora perseguendo il regista. Ovviamente piovvero sul film accuse di misoginia, del tutto prive di senso visto che semmai a essere messo alla berlina non è un personaggio, ma un sistema, lo stesso sistema che arriva ad accusare il film di misoginia e di oggettivazione del corpo della donna. Godard dopotutto fu chiaro (e inascoltato): «Ho lavorato da etnologo: come Lévy-Strauss avrebbe potuto dar l’idea della donna in una società primitiva del Borneo così io ho cercato di dare l’idea della donna in una società primitiva del 1964». Cogliendo l’aria del tempo, e anticipandola in parte, Godard aderisce già da cineasta al concetto di moderno, lavorando il cinema come un prodotto di una società capitalista sempre più selvaggia, dominante, annichilente. La sua operazione teorica sfuggì (sfugge?) con ogni probabilità alla stragrande maggioranza dei suoi contemporanei, ma questo è un dettaglio secondario. Il sistema borghese, e Godard ne è consapevole, vive di citazioni (e i monologhi del film ne sono infarciti), ma rinnega ciò che gli appare come finto, ma credibile: ecco allora che nella sequenza in piscina si può e si deve far ricorso al negativo fotografico, che mostra al di là di ogni ragionevole dubbio l’artificio della rappresentazione.
Testo estratto da "Una donna sposata" di Raffaele Meale pubblicato su Quinlan.it